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Posso andare in bagno? Ingredienti per un teen workshop efficace

Di recente mi è capitato di essere parte di un team per la gestione di un programma breve destinato a giovani studenti sul tema della leadership. Da diversi anni non manco questo appuntamento perché è occasione per mettere la mia esperienza professionale al servizio dei più giovani, scoprire il loro punto di vista sulla realtà che li circonda, capire cosa sta cambiando e non da ultimo, aiutare la comunità a formare una nuova generazione di leader al servizio. Assieme ad un team di professionisti in diversi ambiti, ho seguito un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 17 anni per 5 giorni caratterizzati da attività di formazione esperienziale, conferenze, giochi di squadra, momenti di riflessione notturni, progetti sociali. Quasi 75 ore di intensa relazione con alcuni esponenti della generazione “z” alla scoperta di cosa pensano, come selezionano ed elaborano le informazioni, cosa li preoccupa, qual è il loro senso, come decidono ed agiscono, se e come vogliono contribuire allo sviluppo della comunità.

Pur lavorando spesso in mezzo ai giovani, questa volta ho sperimentato una situazione nuova: fin dal primo istante del workshop i ragazzi non hanno esitato a mettere sul piatto le loro idee, la loro personalità e anche la propria storia personale. E soprattutto, hanno sparato domande e riflessioni a raffica: non come spesso capita per compiacere o farsi notare, ma perché genuinamente curiosi. Non che i workshop passati non siano stati significativi, ma questa volta si è respirata un’aria particolarmente diversa.

Cosa ci ha permesso di creare un workshop significativo per i partecipanti?

1. Chiarire ai ragazzi fin dal principio che non c’è giusto o sbagliato.

Non verranno elogiati o rimproverati per quanto condivideranno, ma piuttosto che c’è da riflettere su quanto e come si comunica qualcosa. La trasformazione delle dinamiche di gruppo in assenza di giudizio si percepisce dall’intensità degli scambi e dalla frequenza con cui i ragazzi riconoscono di dover cambiare opinione rispetto a quanto espresso.

2. Ridimensionare le aspettative sul workshop.

Siamo abituati a ragazzi che arrivano al workshop con grandi aspettative di divertimento, gioco, risate. Senza dubbio, questi ingredienti non devono mancare, ma i workshop sono anche fatti di momenti di sfida, a volte meno piacevoli, in cui c’è da mettersi in gioco, provare, fallire, riprovare. Rendere i partecipanti consapevoli anche di questo lato della medaglia li aiuta a definire meglio cosa attendersi dalle giornate trascorse insieme.

3. Resistere alla tentazione di dare risposte.

Da formatori ci si trova a rispondere a tante domande. A volte abbiamo la risposta, a volte no. Ma questo non è il punto. Spesso ai ragazzi non servono soluzioni, serve un’altra domanda per farli riflettere sulla stessa domanda che hanno posto. Oppure hanno bisogno di strumenti per scoprire come riformulare il problema che si trovano a risolvere. Insistiamo spesso sull’importanza del pensare “out of the box”, dell’essere creativi, del non fermarsi di fronte alla prima soluzione individuata, ma di spingersi oltre. Lavorare sulle domande, non sulle risposte, può essere la via giusta. E quand’è che da formatore capisci se hai fatto centro? Nel momento in cui i ragazzi trovano soluzioni completamente diverse da quelle che avresti voluto suggerire loro.

4. Creare un programma che sia al giusto livello

Il programma  non deve essere troppo difficile, ma neanche troppo facile: deve consentire la creazione di quei momenti utili ad “inciampare nella verità”, per usare l’espressione dei fratelli Heath.

5. Avere il coraggio di cambiare in corsa il programma 

Cambiare lo schema o mettere da parte il copione se sentiamo che qualcosa non fila o, al contrario, proprio quando tutto fila troppo bene, può segnare la differenza tra un buon workshop e un workshop ad alto impatto.

Ma, come si fa a capire se il workshop sta andando nella direzione giusta?

Chiedendolo ai partecipanti.

Tante organizzazioni aspettano la fine del workshop per somministrare moduli di gradimento che le aiuteranno a migliorare i workshop successivi. Anche a me capita di farlo, ma ci sono altre modalità che talvolta possono aiutarci a rendere il workshop efficace nell’immediato, mentre lo stiamo ancora vivendo. Ad esempio, considerare del tempo nel programma del workshop per alcune domande esplorative: “Come va? Tutto ok fino a questo punto? Cosa ne pensate di quello che stiamo facendo e dicendo?“.

Sembra scontato, ma a volte, se come me non si ha tanti anni di esperienza alle spalle, ci si lascia trasportare dall’ansia del “seguire il copione”, si è troppo concentrati sui messaggi che si vogliono trasmettere, sulla sequenza di attività che magari per mesi ci si è arrovellati ad organizzare. Nel timore di andare fuori traccia, di aprire conversazioni di poco valore, di non avere abbastanza tempo per trattare tutto quanto è in programma, si perdono di vista le domande più banali, ma a volte anche le più importanti e utili. Invece, tenersi un’ora a fine giornata per una sessione di feedback può essere strategico. La cosa bella poi è che con i ragazzi ci si può sbizzarrire usando strumenti diversi che possono aiutare la riflessione, dal gioco alle immagini, ai mattoncini per le costruzioni al sale colorato. Non c’è limite alla fantasia.

Un altro grande feedback istantaneo arriva dal mondo del linguaggio non verbale. Le facce stanche, i piedi che scalpitano sotto la sedia, il brusio o al contrario l’eccessivo silenzio, le penne che smettono di prendere appunti, qualcuno che dalla sedia si sposta e si siede per terra, chi afferra la scatola di pennarelli e comincia a creare nuovi personaggi dei cartoni animati, chi tira fuori il telefono per guardare l’ora. Sono tutti segnali che ci possono dare informazioni utili.

Nell’ultimo workshop ho prestato attenzione a lui, il famoso, il temuto: “Posso andare in bagno?“. In un workshop destinato ai ragazzi questa è tra le domande più frequenti. Fastidiosa per certi aspetti perché magari nel climax dell’intervento di un relatore, di una conversazione importante, in un gioco in cui vorresti che tutti fossero presenti. Niente, devi interromperti per pronunciare un’unica sillaba. Ma cosa significa quella domanda? Ho davvero bisogno del bagno, o forse, ho bisogno di fare due passi e prendere dell’aria fresca. Ma anche, sono stanco, non mi interessa quello che viene detto. C’è anche questa versione: mi interessa quello che stiamo facendo, ma sono frustrato perché non riesco a capire o a fare quello che mi chiedi e non voglio/ non so dirtelo esplicitamente.

Nel workshop di qualche giorno fa, nonostante i ragazzi sapessero di essere liberi in qualsiasi istante di alzarsi e andare al bagno o a farsi un giro, il “Posso andare in bagno?” è stato protagonista in più occasioni. In una di queste, eravamo ormai vicini all’ora di pranzo dopo aver trascorso una mattinata a trattare il tema del pensare “out of the box” attraverso delle attività in cui ai ragazzi è data la possibilità di spaziare con la mente in un mondo parallelo, senza limiti. Contrariamente a quanto potremmo immaginare, non è un’attività facile e, soprattutto, non gradita a tutti. Alcuni ragazzi non sono abituati a “sragionare” in esercizi di creatività che possono quindi diventare causa di discomfort, di frustrazione, di stanchezza. Il “Posso andare al bagno?” potrebbe venire in loro soccorso per fuggire dalla situazione ed evitare di doversi cimentare in qualcosa di nuovo, in cui inizialmente non andranno a segno o che più semplicemente non è nelle loro corde.

È questo il momento in cui il facilitatore può fare la differenza e trasformare un momento difficile in un momento di verità e di “elevazione” per il partecipante. A volte è sufficiente approfittare della prima pausa disponibile per intavolare una conversazione 1:1. “Cosa succede?” . Si può riflettere insieme sulle sensazioni che si stanno vivendo in aula e capire se, proprio in quella situazione scomoda, non ci sia l’occasione per scoprire qualcosa di nuovo su cui valga la pena cimentarsi.

La settimana scorsa, da quel “Posso andare in bagno?” è nata una breve conversazione che ha portato ad una riflessione di gruppo sul significato dell’attività che stavamo svolgendo. Alla fine del workshop è emerso che uno dei momenti più significativi vissuti non è stato un gioco, una presentazione divertente, la partita a pallone, ma quell’istante in cui, grazie all’attenzione del formatore, qualche partecipante si è scoperto vulnerabile, in difficoltà, frustrato per non riuscire al primo colpo nell’attività richiesta, da cui però ha deciso di non scappare e che ha saputo affrontare imparando qualcosa di nuovo. L’essersi messo di fronte all’ostacolo e aver provato a superarlo, per altro in questo caso con successo, ha dato a qualcuno la motivazione necessaria a cercare nuovi stimoli e ad andare fino in fondo all’attività proposta.

Cosa ci siamo portati a casa come team di formatori (in divenire) da questo workshop? Che alcune domande fastidiose, che magari in altri contesti verrebbero liquidate con un “NO” secco, potrebbero fornire l’assist per trasformare un momento “basso” in un momento di scoperta, una giornata pesante nella giornata più significativa di un workshop. Ma c’è molto di più: più che organizzare attività costose, per rendere un workshop efficace, è sufficiente allenarsi a dedicare un po’ di tempo e ascolto ai partecipanti per creare un momento che rimarrà impresso nella memoria di tutti.

È un’occasione da non perdere. D’altro canto, se sapeste di poter fare un’enorme differenza ascoltando attentamente una semplice domanda, non ci provereste?