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Perfettamente imperfetti

Aziende che non trovano collaboratori. Persone che non trovano lavoro. Dov’è l’inghippo?

Questa è una domanda che mi attanaglia da tempo e che ritorna regolarmente sui giornali. Recruiter e cacciatori di teste saprebbero sicuramente fornire chiare risposte al problema e anche le relative soluzioni.

Nel mio lavoro mi capita spesso di ascoltare imprenditori e manager interrogarsi su come trovare risorse “valide”. Tra questi alcuni lamentano una certa difficoltà nel trovare personale preparato e soprattutto con voglia di lavorare e “sposare” l’azienda. Se poi apriamo il fronte “operai”, si salvi chi può! È come aprire il vaso di Pandora.

Lamentano che soprattutto i giovani sono quelli più difficili da gestire:

Pensano di sapere, non accettano le critiche, vogliono fare carriera in fretta senza fare fatica; investire in loro è frustrante perché appena possono se ne vanno altrove.

Trovandomi a partecipare a corsi di formazione per giovani ho conosciuto decine e decine di disoccupati. Tra questi c’è Federico che in più di una occasione ha deciso di lasciare il posto di lavoro. “Cos’è successo?” – chiedo. “Le mie idee non venivano ascoltate. Nulla poteva essere cambiato. Se sbagliavi, tutti erano pronti a puntare il dito. Non c’era formazione; passavano i mesi e non imparavo nulla, non c’erano prospettive di crescita.”

Federico teme di non riuscire a trovare un’azienda che decida di investire su di lui e lo assuma. Non solo, via via che passano i mesi, nella sua mente il mondo lavorativo assume un connotato sempre più negativo, più ostile, più giudicante, più pericoloso.

Al netto delle questioni legate al mondo della scuola e della formazione, ai programmi non allineati alle esigenze del mondo produttivo, alle retribuzioni, ai contratti, al tema delle pensioni e a quello fiscale… che certamente contribuiscono al problema, ho il dubbio che a volte ci si dimentica che:

  1. non esiste il collaboratore perfetto
  2. non esiste l’azienda perfetta.

C’è un problema di aspettative e realtà.

La relazione datore di lavoro-collaboratore va costruita e coltivata.

Incontro datori di lavoro che cercano ostinatamente la persona che “le abbia tutte”: che sia brava, competente, con esperienza o con poca esperienza a seconda della convenienza; che costi poco non solo in termini economici, ma anche di gestione ovvero che non si lamenti, che faccia ciò che deve fare senza obiettare, che “sposi” l’azienda e sia sempre disponibile a quello che in inglese si chiama l’ “extra mile” o, al contrario, non osi andare oltre quanto in mansionario.

La selezione del personale diventa così una serie di step con colloqui e prove per scovare il candidato che sappia performare meglio e che costi poco, in tutti i sensi.

Dall’altra parte ci sono persone che cercano l’azienda perfetta, quella in cui tutto fili liscio, organizzata, responsabile…  In molti finiscono inevitabilmente a criticare ogni cosa che non funziona e che non è in linea con il manuale dell’ “azienda perfetta”; si scontrano con colleghi e capi, sono costantemente insoddisfatti e arrabbiati. Quando si accorgono dei propri limiti di fronte alla complessità della gestione di un’azienda, scappano alla ricerca illusoria di altre realtà che possano soddisfare i requisiti dell’azienda ideale.

Nella rilettura di un testo del monaco Anselm Grun “Benedetto da Norcia. La Regola per l’uomo d’oggi”, mi è caduto l’occhio su questo paragrafo:

A Benedetto non serve reclutare membri della sua comunità con test psicologici […] Prende gli uomini come sono e perciò anche i deboli.  […] Tiene conto della debolezza dell’uomo e anche i deboli egli vuole far vivere. E ciò richiede un cammino della giusta misura non calato su un ideale immaginato nella propria testa, ma sull’uomo concreto. […] Benedetto non spaventa, ma incoraggia, rimette in piedi. Nonostante il suo realismo, di uno che conosce tutte le debolezze degli uomini avendone fatto esperienza diretta, Benedetto resta un ottimista, uno che ai deboli, ai tipacci, ai mediocri e a quelli che si angustiano per banali conflitti fa intravedere il cammino verso la vita.

La bravura di un datore di lavoro sta nel riuscire a fare ciò che intende fare con le risorse imperfette che ha a disposizione, ovvero coinvolgendo i collaboratori al meglio nonostante i loro inevitabili limiti. Prendendo esempio da S. Benedetto, c’è da accettare che non esiste il collaboratore perfetto e che essere manager significa innanzitutto gestire persone, con il bello e la fatica che questo comporta. [Certamente essere imprenditori e manager di questo tipo presuppone l’aver trovato la “giusta misura” di profitto e aver compreso il senso ultimo (superiore) del proprio agire.]

Assumere un collaboratore non significa offrirgli un traguardo, un ruolo in un’organizzazione perfetta, ma un percorso in salita da fare assieme verso la realizzazione di quella visione a volte dimenticata scritta nel sito aziendale.

È un percorso che richiede pazienza, investimento di tempo ed energia da entrambe le parti e che deve tener conto della debolezza e della fallibilità umana. Può succedere infatti che alla “luna di miele”, quella prima fase in cui si è entusiasti e contenti nella nuova realtà in cui ci si trova a lavorare, segua il momento di disinnamoramento, ossia quella fase in cui si cominciano a riconoscere difetti, i limiti dell’azienda, dei colleghi e anche del proprio capo. In molti scatta il meccanismo: “Dove lavoravo prima facevamo le cose in altro modo e funzionava…” .

Il vero manager-gestore di persone accompagna il collaboratore, specialmente quello giovane, a “stare” nella frustrazione, a “stare” nel momento di difficoltà provando a superarlo, a imparare a funzionare e a dare il meglio di sé nonostante la realtà non corrisponda al manuale dell’azienda perfetta.

È un percorso che si fa in due – azienda e collaboratore – che comincia con il farsi vedere per ciò che si è senza temere il giudizio, dall’accettare i difetti e valorizzare i punti di forza reciproci.