Non c’è posto per sogni piccoli

Avendo vissuto all’estero per qualche anno, di voli ne ho presi diversi. Ho sostato in parecchi aeroporti e ad alcuni mi ci sono proprio affezionata, creandomi una routine tutta mia. Se in tanti desiderano trascorrere il meno tempo possibile in aeroporto, io invece tendo a fare il contrario. Arrivo in abbondante anticipo, cerco di passare il check-in velocemente e poi, in tutta tranquillità, giro tra i negozi di vestiti, quindi la profumeria in cui do un’occhiata alle ultime novità per poi terminare il mio tour in libreria. In ogni aeroporto in cui sosto compero un libro. Non sono fatta per romanzi e fantasy, ma scelgo tra le biografie o i saggi; mi faccio guidare dal “caso”, ovvero dalla copertina e dal titolo.

6 agosto 2018.

Mi trovo all’aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv di rientro da un viaggio con un gruppo di giovani italiani. Ne avevo accompagnati una decina ad incontrare altrettanti coetanei israeliani in un viaggio formativo nel campo della leadership, un’esperienza che si è rivelata significativa per tutti sotto diversi aspetti, a tratti magica.

C’è molta amarezza per un viaggio che sta volgendo a termine. Come da mia routine, faccio un passaggio nella libreria dell’aeroporto di cui ormai conosco ogni angolo. Punto direttamente al reparto dei libri in lingua inglese e vengo presto conquistata da una copertina azzurra e bianca dal titolo “No room for small dreams“. Shimon Peres è l’autore.  Ci metto poco a decidere di prendere il libro e avviarmi alla cassa. Raggiungo il gruppo al bar Aroma dove ordino un frullato di carota e una specie di croissant tipico israeliano (il frullato alla carota non è tra i miei preferiti, anzi, troppo dolce per i miei gusti, ma dal mio primissimo viaggio in Israele, per quanto poco gradevole, è comunque entrato anche lui a fa parte della mia routine all’aeroporto Ben-Gurion).

Mi siedo ad un tavolo nei pressi del bar, apro il libro, ne sfoglio le prime pagine e vengo colta un po’ di sorpresa leggendo la dedica del libro. Sembra che quel libro stesse attendendo proprio me/noi.

To the next generation of leaders, in Israel and around the world.

Mi viene spontaneo leggere queste parole immaginando la voce di Peres, con quell’accento tipico di chi è di madrelingua ebraica. La mente vola subito alle estati del 2013 e 2014 in cui mi è stata data occasione di incontrarlo, negli ultimi due anni della sua presidenza; mi tornano in mente le difficili parole ascoltate in ebraico e le traduzioni in inglese dei miei amici che mi assistevano con tanta pazienza e dedizione.

28 settembre 2021.

Ricorre il quinto anniversario dalla morte di Shimon Peres, protagonista del secolo scorso, interessante e al tempo stesso controverso.

Si dice, e ne sono abbastanza convinta, che nella vita conti di più porsi domande che dare risposte. Ma nel caso di Peres, sono disposta a fare un’eccezione. Di lui mi rimane oggi il ricordo della semplicità disarmante delle sue risposte, spiazzante per certi versi.

Come in quella occasione in cui, diventato presidente, un giovane un po’ sfacciato lo avvicinò chiedendogli: “Signor Presidente, con tutto il rispetto, dopo una lunga carriera, perché continua a lavorare alla sua età?”. “Perché mi metto al servizio?” – ribatté Peres forse preso un po’ in contropiede. “Suppongo di non aver mai considerato l’alternativa.”

Di Peres non tutti conoscono le speranze e i desideri giovanili, quelli di un leader a servizio, gli anni trascorsi a costruire una certa visione di comunità a partire dal kibbutz. Peres si distingue fin da subito per essere molto attivo e partecipe; si dà da fare cercando punti di riferimento, confronto e guide negli adulti.

Come tanti giovani, anche Peres ha un idolo da ammirare: Ben-Gurion. Lo osserva attentamente negli anni di grandi battaglie per ottenere la leadership di quel paese che stava nascendo. Ed è proprio la frequentazione di Ben-Gurion che fa comprendere a Peres la chiamata al servizio. La scintilla di Ben-Gurion per Peres tuttavia non scatta subito. Un giorno Peres ha addirittura occasione di ricevere un passaggio dall’auto che trasportava Ben-Gurion: trascorre una notte insonne escogitando le domande da fargli, immaginando il tipo di conversazione che avrà, preparandosi a mettersi in luce di fronte al suo idolo. Salito in auto però Ben-Gurion sembra non dimostrare alcun interesse per quel suo giovane fan e rimane a dormire per tutto il viaggio con la testa appoggiata al finestrino. Peres con grande disappunto non può far altro che accettare di aver perso l’occasione di una conversazione. Dovranno passare diversi anni prima che i due lavorino a stretto contatto e perché Peres possa cominciare a guadagnarsi la fiducia di Ben-Gurion.

Negli anni infatti quel ragazzino che Ben-Gurion aveva inizialmente evitato in auto, diventa uno dei suoi uomini di fiducia, instancabile, sempre attivo, con poche ore di sonno dormite a notte. Qualcuno arrivò a chiedere a Ben-Gurion perché si fidasse così tanto di quel giovane. “Non mente, non dice male degli altri e quando bussa alla mia porta solitamente è per parlarmi di una nuova idea.” – fu la risposta.

Di Peres stupisce da una parte l’attivismo, dall’altra l’insaziabile voglia di conoscere. Questo lo porterà, tra le altre cose, negli USA a studiare (con la benedizione di Ben-Gurion) pur sempre continuando a lavorare per il governo, divenendo anche in quel contesto uomo-chiave in quella che sarà l’aviazione  israeliana. Per un paese così piccolo e debole un progetto simile sembrava inizialmente impossibile agli occhi degli addetti ai lavori, troppo costoso; ma se un progetto non era impossibile non era per Peres evidentemente.

Quale tipo di investimenti ti permetteranno di crescere? “Investimento” può voler dire molte cose: tempo, soldi, e – forse il più importante di tutti – cuore. Tante volte nella vita abbiamo difficoltà di procedere con fiducia, per la paura di sbagliare. Tuttavia, il rischio più grande è la paura di rischiare.

Nella leadership di Peres c’è una buona dose di imprenditorialità, assunzione di rischio e creatività nella ricerca di soluzioni.

Quando hai due alternative, la prima cosa che devi fare è andare alla ricerca della terza- quella che non hai pensato, quella che non esiste ancora.

Pur essendo un uomo di diplomazia e relazioni, c’è molta solitudine nella leadership di Peres: il prezzo da pagare per i grandi sogni impossibili sembra essere lo scarso consenso che riesce a guadagnare, le minacce, gli attacchi di chi non comprende la visione, il sogno di Peres. Peres si trova spesso frustrato da questa situazione visto che molte delle sue iniziative avvenivano sotto segreto di stato e chi lo criticava conosceva dunque solo parte della storia. Peres non è contento di questa situazione, vorrebbe poter far capire la direzione verso cui vorrebbe spingersi e riuscire ad ottenere appoggio e supporto invece che critiche. È di fronte dunque ad una scelta: vivere da mediocre guadagnando il consenso, o andare dritto per la sua strada.

Giunsi a capire la scelta che sta al cuore della leadership: andare verso i grandi sogni ed accettarne le conseguenze o ridimensionare le mie ambizioni in favore del consenso. Per me c’era solo una scelta. Non avrei saputo essere qualcun altro, scelsi quindi di essere me stesso. Decisi che contava più del credito, della popolarità, del titolo.

Sicuramente questa mentalità non ha reso facile la vita di Peres; per inseguire la sua visione ha dovuto passare molti notti in bianco, perdere le elezioni e anche molti amici. Ma come dice lui:

I successi hanno alimentato la mia fiducia in me stesso. Gli insuccessi hanno rafforzato la mia spina dorsale.

Leggere la storia di Peres significa guardare anche agli eventi che hanno portato alla nascita e lo sviluppo dello Stato di Israele da parte di chi li ha vissuti in prima persona. Uno sviluppo che per certi versi ha del miracoloso considerando che Israele non ha petrolio nel sottosuolo e non ha acqua. Una condizione di svantaggio in partenza, ma che con il senno di poi è stato più un punto di forza che di debolezza, una leva motivazionale ad investire nell’unica risorsa disponibile in abbondanza: le persone e il loro potenziale.

“Per essere realisti devi prima credere nei miracoli” diceva Ben-Gurion. E considerando ciò che Israele è riuscito a produrre in termini di scoperte scientifiche e avanzamenti tecnologici, si può facilmente trovarsi d’accordo con Peres quando dice: “Il realismo in Israele non è altro che l’impossibile fatto realtà”.

Di Peres mi sorprende l’immaginazione e la determinazione nel perseguire tutte le vie possibili anche quando non esistono. Tra gli episodi forse più coinvolgenti in “No rooms for small dreams” vi è l’operazione ad Entebbe con il racconto dettagliato delle conversazioni e dei dubbi in merito all’intrapresa di un’azione militare.

“Dobbiamo usare l’immaginazione ed esaminare ogni idea, anche se sembra pazzoide” – disse Peres ai comandanti dell’IDF.

“Non abbiamo piani”, rispose uno di loro.

“Beh allora voglio sapere anche dei piani che non avete!” – risponde Peres dando inizio ad una lunga discussione che porterà nei giorni successivi alla messa in atto di un intervento militare a dir poco creativo, ma di grande valenza simbolica per il mondo che stava a guardare.

L’intervento in Uganda è uno dei tanti episodi della vita di Peres che mette in luce un approccio insolito al processo decisionale di un leader. La missione in questione era ad altissimo rischio e gli israeliani hanno fama per non mancare mai di trovare il pelo nell’uovo e criticare ogni mossa dei loro leader, anche di fronte al successo.

Peres nella sua autobiografia sembra quasi fare la ramanzina ai suoi conterranei, mettendo in evidenza che non si può giudicare la bontà o meno di una decisione sulla base delle conseguenze di tale decisione. Potrebbe sembrare eresia, in realtà per una persona che si trova ad affrontare un processo decisionale questo mindset potrebbe essere di grande aiuto. Il compito di un leader è infatti di cercare di raccogliere tutte le informazioni disponibili per poter prendere una decisione (nella consapevolezza che non decidere è comunque decidere di non decidere) e scegliere un’alternativa sapendo che nessuno è in grado di leggere il futuro con la palla di cristallo. Questo significa accettare le conseguenze anche disattese della propria decisione e l’eventualità di dover rimboccarsi le maniche per affrontarle. Un approccio di questo tipo al processo decisionale conferisce ad un leader una maggior serenità e lucidità anche di fronte ai problemi più drammatici. A volte mi chiedo se sia proprio in questo che si fonda la capacità di Peres di rischiare.

Avessimo fallito la missione, comunque la decisione sarebbe stata corretta. Per qualcuno questa è una delle cose più difficili da capire: una decisione può essere quella giusta anche quando porta all’insuccesso.

La figura di Peres è per certi aspetti molto controversa soprattutto alla luce del roccambolesco processo di pace con i vicini di casa del paese israeliano. Una storia molto complessa fatta di tentativi di aprire porte apparentemente non apribili nella consapevolezza che “Nessuna porta rimane chiusa per sempre” e che la pace si raggiunge non contro il nemico ma con il nemico.

Credo che la pace non solo sia possibile, ma inevitabile.

Guardando ai leader che oggi popolano il mondo, in Peres si nota uno stile di leadership unico e irripetibile. Peres è un leader-sognatore, ma con i piedi ben ancorati a terra, che non cerca il consenso e che riconosce che bisogna faticare per sperare in un finale a lieto fine e che gli errori sono sempre alle porte. La stessa vita di Peres è piena di errori e di bucce di banana su cui lui stesso ammette di essere scivolato a volte con conseguenze piuttosto pesanti per il suo paese. Il progresso non è lineare: a volte si è costretti a fare pesanti passi indietro prima di andare avanti. Il costo della pace è molto elevato.

Ci sono cambiamenti importanti in corso in tutto il mondo e Peres nelle sue ultime parole prima di passare a miglior vita esorta i giovani leader a ritrovare la voglia di mettersi in gioco, di non scappare dalle responsabilità, di rispondere alla chiamata al servizio.

Abbiamo bisogno di una generazione che veda la leadership come una nobile causa, basata non sull’ambizione personale, ma sulla moralità – e  una chiamata a servire. Abbiamo bisogno di leader che credano che il mondo possa essere cambiato non uccidendo e sparando ma costruendo e confrontadosi; leader che preferiscono essere controversi per la causa giusta, e non popolari per le ragioni sbagliate; leader che usano più l’immaginazione che i ricordi.

Cinque anni fa, mi trovavo a Londra e passeggiavo come d’abitudine nel quartiere di Notting Hill in direzione Kensigton Gardens. Prendendo in mano il telefono ho letto le notizie dei quotidiani israeliani che riportavano la morte di Shimon Peres. Mi è venuto spontaneo alzare lo sguardo verso l’alto scoprendo la bellezza degli alberi del viale, vecchi, grandi, dall’aspetto molto saggio. Ne ho scattato la foto per ricordare il pensiero che ne è seguito.

Il pensiero alla figura di Peres come leader ormai anziano, all’intensità della sua vita vissuta fino all’ultimo secondo, con l’obiettivo (forse) di lasciare un’eredità spirituale alle generazioni future.

Mi sono stati dati da vivere qualcosa come due miliardi e mezzo di secondi: ne sono stato consapevole e ho deciso di fare qualcosa di quei secondi così da poter fare la differenza. Penso di aver preso la scelta giusta.