L’inclusione parte da te

In Italia, come all’estero, nelle organizzazioni si sta diffondendo una sempre maggiore attenzione verso il tema dell’inclusione. Si dice infatti che più un ambiente organizzativo è inclusivo, meglio si lavora.

Così, anche alla luce del fenomeno delle “grandi dimissioni”, molte organizzazioni hanno cominciato a chiedersi:  “Che cosa dobbiamo fare?”, “Quali iniziative possiamo mettere in campo per rendere il nostro ambiente lavorativo inclusivo?”

Prima però di passare all’azione e mettere in campo giornate di sensibilizzazione, distribuire gadget, far circolare documenti pieni di parole asteriscate e tutto ciò che “ormai si fa per fare gli inclusivi”… c’è da considerare qualche aspetto dell’inclusione su cui a volte si rischia di passare sopra con troppa leggerezza.

L’inclusione è un processo.

E, come ogni processo, non si esaurisce in un evento, in una singola giornata, in un nuovo documento che detta le regole di buona comunicazione.

L’inclusione è un processo bilaterale. 

Richiede uno sforzo da più parti. L’organizzazione e i suoi leader fanno la loro parte, ma anche il singolo deve fare la sua: ha la responsabilità di “includersi”.

“Ma come?! Rappresento una minoranza e sono io a dovermi attivare per essere incluso e sentirmi tutelato?” – potrebbe essere la reazione di qualcuno.

Sì: ognuno deve fare la sua parte. In inglese si utilizza l’espressione self-inclusion: le iniziative non possono avere efficacia se prima le persone non includono sé stesse.

Tutti sono diversi e tutti hanno bisogno di essere inclusi. Tutti si devono dare da fare facendo della self-inclusion.
Gli studiosi ci raccontano che più si è consapevoli della propria di identità, valori, esperienze, e più facile è accettare gli altri, accogliendoli, realizzando l’inclusione. Prima quindi, si deve passare da sé stessi e i leader di un’organizzazione hanno la responsabilità di dare l’esempio.

When we acknowledge the diversity of experiences, interests, and values that exists within ourselves, we are better equipped to notice and recognize the diversity around us in a more generative manner. To be able to understand, engage, and value diversity at work and to effectively create inclusion for themselves and others, both leaders and employees must understand and appreciate all of their selves, without being required to compromise, hide, or give up any key part of what makes them who they are. (D. L. Plummer)

L’inclusione richiede che per prima cosa avvenga una profonda connessione con le varie parti che compongono ognuno di noi o, come scrive Plummer, occorre che ognuno giunga ad un’esperienza di sé piena.
Se chi nelle organizzazioni si fa paladino-leader dell’inclusione riesce in questo, allora è probabile che sia disponibile a creare le condizioni che permetteranno agli altri di fare altrettanto. Via, via l’inclusione sarà possibile.

Only when we are able to access and appreciate our full selves can we wholly experience inclusion, which means feeling that we are “safe, trusted, accepted, respected, supported, valued, fulfilled, engaged, and authentic in our working environment, both as individuals and as members of particular identity groups”.

L’inclusione comincia dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dall’accettazione e dalla capacità di esprimere le identità di cui ognuno di noi è portatore.

Ognuno è “tanta roba” e sceglie cosa esprimere, rendere manifesto, della propria identità.
Quando l’individuo lascia parte di sé “fuori dalla porta” rischia di essere una persona “divisa”, non integra, di mettere da parte pezzi di sé, talvolta a discapito del proprio benessere.
Se ciò accade, l’organizzazione perde il valore legato a quella parte di identità del singolo che non viene espressa, della diversità, insieme alla capacità di far fronte ad un contesto sempre più complesso e in veloce cambiamento.

Più le persone riescono ad essere autentiche e a loro agio con le proprie diverse identità, maggiore allora è il benessere individuale e la possibilità che l’inclusione possa davvero accadere, nelle organizzazioni e nella società.

L’inclusione è un processo profondo.

Da qui si intuisce che l’inclusione è un processo che richiede che si vada a fondo, che l’individuo abbia accesso a sé stesso: serve fare chiarezza su ciò che ci rende ciò che siamo.
Non è cosa semplice… I percorsi di crescita personale mi insegnano che per una buona parte di noi non è facile essere a proprio agio con la propria identità.

Accettazione

“Accettazione” diventa così una delle parole chiave alla base dell’inclusione.

Accettazione di sé che genera e agevola l’accettazione dell’altro.

Devo riconoscere che mi è difficile spiegare cosa sia questa accettazione e come avvenga veramente. Allora ricorro alle immagini di un video che potranno essere più esplicative di qualsiasi parola che verrà a seguire.

 

“Due piedi sinistri” è un filmato che si commenterebbe da sé.
Potrebbe parlare di disabilità, di tifoserie avversarie, di amicizia, di pregiudizi, stereotipi… La lista è lunga.

Ogni personaggio del filmato ha una storia, un’identità, pregi e difetti distinti. Ci sono tutti gli ingredienti necessari a parlare di accettazione dell’altro, a presentare la morale che da anni ormai nelle nostre organizzazioni e nella società si è trasformata in retorica.

Ci aspetteremmo un finale con tutti i ragazzini, con e senza disabilità, romanisti e laziali, maschi e femmine, grassi e magri… insieme a mangiare il gelato.
Vissero felici e contenti. Amor vincit omnia. La sconfitta dei pregiudizi.

Invece no: l’autore usa i nostri stessi pregiudizi di fronte alla storia che sta presentando per stupirci con un finale insolito, facendoci capire che abbiamo preso un grosso granchio.
Il regista sembra tradirci con un fotogramma di divisione più che di inclusione. Potremmo sentirci offesi quasi, indignati perché avremmo sperato che almeno quei ragazzini, anime pure, fossero capaci di “andare oltre le apparenze”, facessero meglio degli adulti.
Eppure, passati i primi secondi di stordimento perché abbiamo capito di non aver capito, siamo contenti lo stesso di quel che il regista ci propone. Anzi, siamo sollevati, leggeri, qualcuno magari commosso.

Il regista ci accompagna verso un nuovo livello di comprensione.

L’inclusione era già potenziale, disponibile, fin dal primo minuto del video. Mancava però un ingrediente: l’accettazione di sé.

Il sorriso della ragazza che si trasforma in una mezza risata vale molto di più del finale che ci eravamo immaginati inizialmente. È in quel momento che l’inclusione incomincia. E non è più questione di andare a prendere il gelato insieme. Non serve: quell’iniziativa è ormai irrilevante.

Il filmato finisce per parlare e dire di ognuno di noi. E per chi si occupa di inclusione, lascia in consegna delle riflessioni che potrebbero rivelarsi chiave.

Prima di affrettarsi ad occuparsi di iniziative di inclusione, varrebbe la pena chiedersi: le persone che vogliamo includere sanno accettare sé stesse per ciò che sono? Come dare loro supporto in questo?
E prima ancora: quanto della nostra identità è inclusa negli ambienti, lavorativi e non, che viviamo? Siamo davvero sicuri di aver fatto la nostra parte per essere inclusi?