L’eredità di un sogno imprenditoriale
Durante le festività, mi è tornata tra le mani questa vecchia foto, e con essa il desiderio – forse poco realizzabile, forse solo nostalgico – di tornare un giorno a visitare questo luogo.
Se i muri di questa vecchia azienda potessero parlare, avrebbero tanto da raccontare.
Racconterebbero di idee nate attorno a un tavolo in cucina, di sfide e soluzioni trovate con quella creatività che nasce dall’urgenza di cogliere un’occasione che potrebbe non ripresentarsi.
Racconterebbero dell’odore del legno appena tagliato, di segatura, di vernice e di colla.
Racconterebbero di mani segnate dal lavoro, di linee tracciate con la matita piana, di furgoni carichi pronti a partire verso destinazioni lontane, del suono del fax in arrivo.
Racconterebbero di intercalari veneti, di imprevisti che diventano avventure, di incontri commerciali che si trasformano in esperienze culinarie, di successi e di errori che insegnano più di qualsiasi libro.
Ma soprattutto, racconterebbero della vita delle persone.
Racconterebbero di amicizie incrollabili da cui nascono nuove visioni e invenzioni. Racconterebbero di storie di solidarietà. Racconterebbero di conflitti familiari che spazzano via tutto.
Quella piccola impresa non era solo un luogo di lavoro: era un laboratorio, un microcosmo in cui ogni giorno c’era da fare e da sbrigare.
È in quei capannoni che ho incontrato l’imprenditorialità, quella combinazione unica di intuizione e pragmatismo, quella capacità di guardare al problema come un’opportunità, trovando soluzioni che gli altri non riescono a vedere.
Oggi, proprio attraverso il lavoro che svolgo, riesco a comprendere ancora meglio quanto ho visto nelle ore trascorse con mio nonno, mio zio e la famiglia allargata dei collaboratori.
Le esperienze degli altri, attraverso il confronto, possono infatti offrire chiavi di lettura inaspettate, aiutano ad illuminare la propria di esperienza, ad unire i puntini, a divenire consapevoli del proprio contesto, ad agire in una modalità sostenibile per sé e per il sistema di cui si è parte.
Incontro dopo incontro, ho imparato (e forse sto ancora imparando) ad usare delicatezza aprendo la porta di un’azienda, consapevole della complessità e delle dinamiche che possono abitarvi.
Attraverso i tanti momenti di confronto ho potuto condividere quanto siano davvero fondamentali e non affatto scontati la collaborazione, il compromesso e, soprattutto, il coraggio di accogliere il cambiamento.
Guardando la foto di quell’impresa che ormai non esiste più da tanti anni, ripenso alle occasioni di incontro nel mio lavoro con chi, oggi, vive quelle stesse dinamiche che ho respirato anni fa.
Ascolto e comprendo la difficoltà e la voglia di affermazione delle nuove generazioni, comprendo il loro desiderio di essere visti capaci; comprendo il desiderio dei più giovani di essere riconosciuti come figli prima che collaboratori, come individui con capacità e aspirazioni proprie; comprendo la difficoltà di chi vorrebbe essere incoraggiato nel suo desiderio di intraprendere una strada diversa.
Comprendo le difficoltà di chi pensa di avere dato tutto, di chi dice di aver creato tutto per i figli; comprendo la difficoltà di chi sta esaurendo la sua energia di accettare che arrivi il momento in cui il ritmo deve rallentare; comprendo la paura di perdere il controllo della propria “creatura” e il timore di non essere più indispensabili.
Forse non tornerò mai in quel luogo che era l’impresa di mio nonno. Ma grazie al mio lavoro, continuo a custodire con me l’eredità di quell’ambiente e i valori delle persone, familiari e non, che lo hanno abitato.
Il cuore di un’impresa e la sua continuità non è nei bilanci o nei prodotti e neppure nelle sue pareti. Piuttosto nella sua eredità valoriale, attraverso le storie delle persone che l’hanno vissuta.