L’eredità di un nonno. Il senso del fare impresa.
Devote yourself to loving others, devote yourself to your community around you and devote yourself to creating something that gives you purpose and meaning.
Sono passati ormai dodici anni da quando ho letto per la prima volta queste parole di Morrie Schwartz che hanno segnato la mia passione per lo studio della leadership. Dodici anni di una leadership journey fatta di tante letture e conferenze ma soprattutto di incontri con una grande varietà di persone: imprenditori, dirigenti aziendali, consulenti, professori, studenti, monaci e monache, allenatori, scrittori, atleti, consulenti, broker,… italiani e stranieri.
A distanza di più di un decennio, quella frase è ciò che ancora meglio rappresenta per me il senso del leader e di una leadership che si prende cura, che integra, che dà senso, che è sostenibile, che fa crescere.
Il primissimo contatto con il mondo dell’impresa e della leadership l’ho vissuto da bambina, attraverso mio nonno, imprenditore di un mobilificio. Aveva ereditato assieme al fratello una bottega che risaliva a due generazioni precedenti; negli anni, aveva scelto di investire in qualche capannone e nella nuova casa in cui si è trasferita la famiglia, davanti la fabbrica, sopra gli uffici dell’amministrazione.
L’ho capito solo da adulta, ma in quella fabbrica e nella sua comunità c’erano il senso di mio nonno e, oggi dico, della leadership. Noi nipoti quando avevamo voglia di incontrarlo lo cercavamo lì tra le macchine, tra la polvere, i piccoli cumuli di segatura e le vernici.
Mentre gli adulti probabilmente vedevano in quella fabbrica solo un luogo di lavoro, magari neanche proprio comodo, noi bambini ci vedevamo un labirinto di ambienti, strumenti con cui “giocare” che potevano dar vita a qualsiasi tipo di oggetto.
Erano gli anni in cui la domenica e nelle festività le macchine erano ferme. In quei giorni la fabbrica veniva conquistata da noi nipoti. Chissà in quanti oggi inorridirebbero immaginando un gruppetto di bambini girovagare per una fabbrica perché piena di pericoli. Per noi nipoti invece non c’era posto migliore per giocare a nascondino o per costruire una città in miniatura con il legno di scarto e gli utensili recuperati sui tavoli da lavoro.
A volte mi chiedo cosa avranno pensato nonno e zio il lunedì mattina, alla ricerca dei vari strumenti che puntualmente non riportavamo al loro posto: ne combinavamo tante e non facevamo nulla per non farci scoprire. Tuttavia, mai un rimprovero, neppure quando mio fratello maggiore ha attivato il pulsante del nastro trasportatore facendo rotolare giù alcuni prodotti in attesa di essere ultimati e spediti al cliente.
La fabbrica era un ambiente familiare così come gli uffici da cui rubavamo fogli di carta, stecche, calcolatrici e matite per giocare “ai commercianti” nello show room dell’azienda o “al designer”.
Purtroppo nessuno di noi è cresciuto abbastanza velocemente da poter vivere da adulti consapevoli l’attività imprenditoriale del nonno e dello zio. La fabbrica è stata chiusa. Per anni, chi più chi meno, abbiamo però respirato una certa cultura d’impresa attraverso la frequentazione del nonno, della famiglia e delle persone con cui lavorava.
Per quanto bambini e ritenuti non capaci di capire le cose “dei grandi”, qualcuno di noi ha ancora memoria del momento in cui gli adulti seduti attorno al tavolo della cucina decidevano di chiudere l’attività, delle parole a volte focose del nonno origliate tra le grida di “Un-due-tre per me!” dei cugini nella partita a nascondino.
Abbiamo capito che il nonno aveva posticipato fino al limite di ogni ragionevolezza manageriale la chiusura dell’attività a discapito del suo stesso patrimonio personale per salvaguardare il più possibile la comunità che da lui dipendeva.
Da adulti poi, durante i lunghi anni di malattia, abbiamo compreso quanta dedizione ci fosse per quella fabbrica che non c’era più, ma che era ancora viva nella memoria del nonno.
Un giorno d’estate, poco più che settantenne, agli esordi della malattia, alzatosi dal sonnellino pomeridiano mi ordinò di andargli a prendere carta, matita e squadra per disegnare un pezzo di un mobile: la fabbrica era così parte di lui al punto di essersi dimenticato di averla chiusa qualche anno prima.
Ecco forse perché, negli anni di studio in Bocconi e poi nelle successive esperienze lavorative, mi è stato difficile anche solo sfiorare l’idea di un imprenditore e di un’impresa che vivono per fare profitto.
L’impresa fa profitto per vivere il suo essere sociale, la sua capacità di rispondere a bisogni diversi di una comunità variegata, clienti interni ed esterni, oggi e negli anni a venire. Il profitto è il vincolo, una condizione necessaria, non il fine. Fare impresa chiama responsabilità per definizione e l’impresa che non si fa responsabile, o che non è sociale, non è un’impresa.
Il distinguo impresa profit e impresa non profit mi ha attanagliato per lungo tempo.
Pensando agli esempi che ho ricevuto, oggi osservo il mercato e vedo semplicemente delle imprese. Al di là di una natura giuridica distinta, che è necessaria al fine di una sostenibilità di sistema, impresa profit e non profit hanno entrambe un valore sociale e devono cercare un equilibrio economico finanziario.
Nel dare il mio contributo al testo del prof. Fiorentini ho immaginato di rivolgermi indistintamente a chi opera in imprese profit e non profit, facendo sintesi di quanto ereditato dalle persone che negli anni mi hanno maggiormente ispirato in tema di leadership.
Sintetizzare in poche pagine la leadership è stata una sfida, anche personale. Un’occasione per mettere un punto fermo che di certo non rappresenterà la fine di questa mia journey, ma una tappa da cui ripartire.