Leadership Development e nuove generazioni
Negli ormai diversi anni che mi sono dedicata ai più giovani e alle attività di leadership development ho potuto essere testimone di un passaggio verso una nuova generazione che è diversa dalle precedenti. Certo, non è una scoperta: di studi a riguardo ce ne sono un’infinità. Ma quando ci si trova a gestire la nuova generazione o a collaborarci insieme, passare dalla teoria alla pratica non è banale. Non è solo una questione del famoso “smartphone” e dei social a cui i più giovani sono costantemente connessi… c’è molto altro.
Sensibilità, modalità di comunicazione e di relazionarsi diverse. Ma soprattutto, ci sono bisogni differenti. Tra tutti, i più importanti: il sentirsi ascoltati e voluti bene. Senza dubbio tutte le generazioni condividono questo bisogno, ma quelle nuove mi sembra lo esprimano con più insistenza.
Farsi presenti
Se dieci anni fa i programmi di leadership development che costruivo erano soprattutto un concentrato di attività, ora il focus è un po’ cambiato. Ciò che la nuova generazione chiede (più o meno esplicitamente) sono punti di riferimento, di ascolto e da cui ricevere Bene. Punto. Il resto passa in secondo piano.
Le attività di formazione esperienziale ormai di moda sono (solo) uno strumento per “scaldare i motori”; il veicolo di uno scambio formatore-giovane e giovane-giovane su un altro livello, più alto o più profondo, a seconda di come preferiamo intenderlo.
Vulnerabilità
C’è un momento preciso in cui la conversazione assume una dimensione tale da dare davvero senso all’incontro, il momento in cui i ragazzi cominciano a fare domande. Quella diventa l’opportunità da cui cominciare per sviluppare la leadership. E perché questo avvenga serve creare il contesto giusto, quello sicuro, in cui è più facile avere coraggio… il coraggio di essere vulnerabili, di mostrarsi per ciò che veramente si è, con i propri dubbi e limiti. Così crolla quell’immagine che troppo spesso viene a crearsi quando di fronte al gruppo i ragazzi vogliono mostrarsi “migliori”. E crolla anche l’immagine del formatore-adulto che ha sempre risposta per tutto e consigli da spartire.
Domande
La maggior parte delle volte che incontro un nuovo gruppo di giovani l’aspettativa è di trovare risposte o qualche forma di verità, magari proprio dal formatore. In un percorso di leadership development l’essenziale sta invece nell’imparare a farsi domande. Piano piano, chi partecipa arriva ad essere consapevole che non è una questione di risposte, ma di porre le domande “giuste”. Quando comincia a diffondersi questa consapevolezza nel gruppo, la conversazione assume un’intensità diversa. Il formatore non dà più “forma”, diventa un accompagnatore in quanto conosce i dubbi dei ragazzi perché ci è passato o li sta attraversando e un facilitatore di un dialogo la cui funzione è garantire uno spazio sicuro.
Bene
Il ruolo del facilitatore-accompagnatore non è per nulla semplice. Spesso si incappa nel tranello di fornire una risposta, altre volte si sbaglia nel ritenere che la domanda sia quella giusta. È una questione di esperienza e allenamento, che richiede una condizione necessaria e imprescindibile: il volere Bene. Non si può fare leadership development se non si vuole il bene smisurato di chi si ha di fronte. Fare il bene dei più giovani non è fare ciò che noi vorremmo fosse fatto a noi come direbbe la Regola d’Oro. E non è neppure fare ciò che vorremmo fosse stato fatto a noi quando si era giovani (talvolta questa è la peggiore delle trappole che rischiano di sabotare anche la più buona delle intenzioni di un formatore-facilitatore). Non è neppure fare ciò che i ragazzi vorrebbero che noi facessimo loro. È un bene che richiede il mettersi in ascolto per comprendere ciò che è bene per chi abbiamo di fronte e agire nella consapevolezza spesso chi abbiamo di fronte non è consapevole del suo stesso bisogno.
“Ma cosa centra il soddisfare il bisogno di “bene” con la leadership development?” potrebbe chiedersi qualcuno. “E perché contenuti, teoria, attività… vengono dopo?”
Perché se leader è chi per prima cosa si mette al servizio dell’altro, ecco che per farlo bisogna avere chiaro cosa sia il bene per l’altro. Il formatore-facilitatore deve essere esempio di servant-leader. E se un giorno la speranza è che tra quel gruppo di giovani emergano dei leader, è fondamentale che capiscano cosa significa ricevere Bene per poterlo dare.
Amare
Per poter identificare ciò che è Bene per l’altro serve farsi guidare da agape, il primo pilastro della leadership, amore disinteressato e gratuito.
Per chi gestisce programmi di leadership development questo è forse il punto più ostico. A volte la preoccupazione che tutto funzioni e vada bene, o l’attenzione per tutti quei dettagli estetici che a volte abbondano nella progettazione dei programmi di leadership development, distraggono dal sintonizzarsi su una dimensione di carità. Invece è richiesto un atto di abbandono, di piena fiducia nel processo. Quando questo avviene ecco che, qualsiasi cosa accada, si potrà essere certi che saranno state gettate basi solide per una leadership journey significativa.