Cadere

Due o tre volte l’anno, passo il weekend in un posto tranquillo dove, al di là di riposarsi, gli appassionati sportivi possono dare sfogo alle loro energie.
Nascosto in mezzo ai campi da tennis c’è uno spiazzo di cemento, un campo da basket. Così, ogni tanto, capita che mi venga voglia di rimettere le ruote ai piedi, di calzare quei pattini che per tanti anni sono stati il mio unico pensiero.
In alta stagione, gli amanti della sfera arancione occupano il campo già di primo mattino: io allora li anticipo alle 6.30 per godere indisturbata di quei 30 metri quadrati di cemento.

Sono passati ormai parecchi anni da quando ho messo i pattini definitivamente al chiodo (ci ho provato diverse volte) e l’esperienza di scendere in pista per qualche ora non è una passeggiata, anzi. Con la mancanza di pratica e gli anni che passano, tante cose cambiano. Cambia il corpo che non conserva né forza né elasticità sufficienti per poter permettersi grandi evoluzioni in aria. Alcuni movimenti sembrano rimasti indelebili nelle fibre muscolari come se nella vita non avessi mai smesso di farli, mentre altri provocano una fastidiosissima nausea o dolore a quelle articolazioni che ormai mal sopportano certi carichi.

Alcuni sostengono che lo sport sia metafora della vita e del mondo del lavoro.
Negli ultimi tempi sperimento che anche la “vita dopo lo sport” può diventare pane per i pensieri.

Tra gli aspetti infatti a cui ultimamente faccio attenzione c’è la paura di cadere. Di cadute sui pattini ne ho accumulate davvero tante, ma non praticando più questo sport, si fa avanti sempre di più la strana paura di “incontrare il pavimento”.

Strana perché, nel pattinaggio come in tanti altri sport, cadere è in realtà tra le cose più normali che possa capitare. E non è una tragedia:

  1. non ci si fa male (di solito)
  2. cadere è necessario ad imparare.

Può capitare di fare cadute anche spettacolari e Youtube offre delle compilation sensazionali a riguardo, ma la maggior parte delle volte se ne esce senza un graffio… È come se in qualche modo si fosse “allenati” a cadere. Quando si comincia questo sport, magari a tre anni come è capitato a me, si cade spesso, ma la velocità è bassa, il baricentro pure, si finisce al massimo con una sbucciatura e qualche livido se la pista “è dura”. Con il passare del tempo la tecnica si affina: migliorano le esecuzioni degli esercizi e anche la dimensione delle cadute.
“Che schianto!” – mi sembra ancora di sentire qualcuno pronunciare questa espressione per poi chiedere “Sei viva?” alla compagna a terra in modo un po’ canzonatorio, ma di comprensione al tempo stesso.
Insomma, puoi cadere anche da un salto triplo, ma non ti fai poi così male, perché in fondo “sai come cadere”.  Esiste infatti quella frazione di secondo nel momento di preparazione di un esercizio o mentre sei in volo in cui capisci che le cose stanno andando storte: sai che stai per cadere e ti prepari a farlo.

Non hai mai commesso un errore se non hai mai tentato qualcosa di nuovo
(A. Einstein)

Cadere, per quanto non sempre comporti brutte conseguenze, certo non è piacevole, è frustrante. È il sintomo, se così si può definirlo, di un errore e nessuno si diverte quando sbaglia. Eppure la caduta è necessaria per imparare e migliorare, per passare al livello successivo.
Ricordo bene quando per un intero anno ho cercato di conquistare due rotazioni in un salto che a me risultava ostico. Continuavo ad atterrare in piedi senza però raggiungere le due rotazioni complete: mancava sempre un pezzettino che in sede di competizione si traduce in un punteggio più basso.
La svolta è avvenuta una sera di inizio estate, su una superficie che quando cadi non perdona, lasciandoti delle belle sbucciature rosse. Al solito salto atterrato incompleto sento urlare l’allenatore dall’altra parte della pista:

“Cambia errore!”

“Ma cosa sta dicendo?” – devo aver borbottato senza farmi troppo sentire di fronte all’ennesimo fallimento. Sembrava una presa in giro.

Arrabbiata forse più con me stessa che con il mondo, ho preso velocità, ho saltato con tutta la forza che avevo e mi sono trovata in qualche modo in aria.

“C’è qualcosa di diverso” – ho fatto a tempo a pensare prima di finire per terra, ma neanche troppo rovinosamente.

“Finalmente!” – l’espressione dell’allenatore.

Ero caduta ma per la prima volta avevo completato i due giri: avevo cambiato errore.
Mi sono rialzata e facendo memoria di quanto fosse appena accaduto ci ho riprovato. A poco a poco, nel giro di mezz’ora ho conquistato l’ostacolo che non riuscivo a risolvere da tempo.

Cadere bene, per quanto sia un ossimoro, è un’arte e come tutte le arti va praticata. Se per troppo tempo non la eserciti e “perdi contatto con il pavimento”, finisci per non cambiare mai e non andare avanti nel tuo percorso. Meno si è abituati a cadere e più diventa anche probabile che al prossimo tentativo ci si faccia male veramente.

Qualche giorno fa dunque, per la prima volta dopo dieci anni, su quel piccolo pezzo di cemento, mi è venuto in mente di cimentarmi nel famoso “axel” , un salto inventano a fine ‘800 dal norvegese Axel Paulsen. Un esercizio facile quando si è bambini, meno scontato quando non lo si ha nelle gambe da tanto tempo.
Disabituata a cadere, passati dieci minuti non ero ancora riuscita a saltare.
Continuavo ad andare “a vuoto”. Quando ero lì lì per saltare, la paura me lo impediva.

“E se cado?”

“E se cadere fa male?”

Ad un certo punto mi sono fatta un po’ di coraggio, in fin dei conti quante migliaia di volte avrò eseguito un axel nella vita!

Prendo velocità, mi giro all’indietro, mi preparo, salto. In aria però qualcosa va storto. Provo a stare in piedi in qualche modo, cerco di recuperare l’equilibrio in fretta ma finisco per terra.

“Porca miseria!” – inveisco tra me e me.

Il cuore a mille dallo spavento.

Dal pavimento il mondo attorno ha una prospettiva diversa, ma mi sembra di essere ancora tutta intera.

Per qualche secondo sono combattuta. Una parte di me è pronta a dire “Hai una certa età, lascia perdere” e l’altra invece vorrebbe riprovarci.

Prevale la seconda. Provo a convivere con la paura che possa di nuovo trovarmi sul pavimento e che magari vada anche peggio. Dopo qualche altro strafalcione, al quarto tentativo la paura comincia a farsi più tenue. Via via tutto sembra più facile e gradualmente comincia finalmente a comparire qualcosa che Paulsen potrebbe ritenere degno del suo nome.

Quando i giocatori di basket cominciano a sbucare da distante, mi rimetto sulla via di casa in sella alla bici e imbocco una stradina tranquilla nel bosco ripensando a quel che è accaduto in quell’ora così silenziosa, su quello spiazzo di cemento.

Ad un tratto mi passano in mente alcune conversazioni nelle organizzazioni che ho incontrato i giorni precedenti:

“In questa azienda non possiamo permetterci errori. C’è troppo poco margine”

Mi viene da sorridere. Quante volte in una competizione importante, magari al campionato italiano o in uno internazionale, c’è poco margine per l’errore e per la caduta. “Puntiamo ad una gara pulita” – dice allora l’allenatore chiedendo all’atleta di ridurre il livello della difficoltà dell’esercizio per garantire una performance “sicura”, il più possibile senza errori. Eppure, anche nelle competizioni importanti, ci si lascia sempre la possibilità di eseguire un elemento nuovo, meno allenato e quindi più rischioso. Perché provarlo in una competizione è tutt’altra cosa che nell’allenamento: l’eventuale caduta o, al contrario successo, ha un valore completamente diverso.
Per quanto piccolo, c’è pur sempre un margine.

I consulenti la chiamano cultura dell’errore. È un tema su cui oggi tante organizzazioni si impegnano perché è una delle condizioni necessarie per evolvere.
In un contesto come quello che stiamo vivendo, le realtà che hanno sviluppato la cultura dell’errore hanno senza dubbio una marcia in più a garanzia della loro sostenibilità nel tempo. Chi non riesce a coltivare una cultura dell’errore, infatti, rischia di non evolvere mai, di trovarsi da qui a qualche anno fuori mercato.

Ma cosa significa nel concreto?

Un’organizzazione sviluppa una cultura dell’errore quando c’è una leadership buona, ovvero che incentiva alla responsabilità personale e permette fiducia reciproca tra le persone che vivono l’organizzazione. Responsabilità intesa come il coraggio di “dare delle risposte“, di farsi carico delle conseguenze del proprio agire. Fiducia intesa come l’accogliere l’errore dell’altro. In altre parole, ho fiducia di te che quando sarò consapevole e ammetterò il mio errore non sarai lì a puntarmi il dito, al contrario, mi aiuterai ad accettarlo e a trasformarlo in qualcosa di buono.

C’è una componente organizzativa della cultura dell’errore, ma c’è prima di tutto una dimensione personale.

“Bisogna imparare ad alzarsi dopo una caduta” – è il detto. Usando la stessa metafora dello sport, prima di imparare a rialzarsi, mi verrebbe da dire che serva imparare a cadere. Se non si cade, non c’è punto da cui doversi rialzare.
E se per troppo tempo capita di non doversi rialzare forse è perché si è rimasti troppo a lungo nella propria zona di agio, fermi, magari per la paura di cadere.
C’è allora da ricordarsi di alzare l’asticella di tanto in tanto, trovando un equilibrio tra novità e zona di confort.

Il momento che segue l’errore è cruciale.
Puoi continuare a difendere quello che eri. O capire chi sei.
(Fabrizio Caramagna)

È un allenamento che non può essere fatto da soli: c’è bisogno di almeno due persone per sistemare l’asta sui montanti.
Ecco allora che le organizzazioni possono essere sì luoghi di lavoro ma formativi-educativi per le persone che vi operano. Luoghi di crescita personale e professionale che a lungo andare si traduce nell’evoluzione dei singoli e del sistema a cui appartengono.