Fiducia. Il secondo “pilastro” della leadership.
Negli ultimi anni i social hanno aiutato nella diffusione di un’idea più corretta della leadership, che si discosta dal leader-boss. A chi mastica questi temi non sarà sicuramente sfuggita quella foto del leader in cima alla montagna che ha raggiunto la meta, che allunga la mano a chi sta un po’ più in basso e lo aiuta a compiere l’ultimo pezzettino del percorso. Per quanto bella perché si discosta dalla visione di un leader-boss, questa immagine non mi soddisfa al 100%. Mi viene difficile pensare, infatti, che possa esistere un uomo esperto di tutto, con la risposta ad ogni domanda in ogni momento, che si alzi la mattina sempre motivato a dare il massimo, atletico al punto da scalare la montagna e, che arrivato in cima, abbia addirittura la forza di allungare la mano per aiutare gli altri a raggiungerlo. Vorrei sostituire questa immagine con qualcosa di più umano e realistico. La leadership non è una scalata lungo un percorso stretto in cui si procede in fila indiana, piuttosto, è un percorso in cui più persone procedono assieme, magari a distanze diverse, ma una a fianco all’altra, sostenendosi, ognuna contribuendo a modo suo all’impresa. Si tratta di una relazione a doppio senso, di continuo e reciproco dare e ricevere, basata sulla fiducia.
All’inizio dell’avventura che la porta ad essere leader, una persona può avere una visione, un “perché” che la muove a trovare un obiettivo (“cosa”). L’obiettivo non è necessariamente chiaro, così come non è chiaro il “come”, i mezzi, la strategia che dovrà essere messa in atto per raggiungere l’obiettivo. In un contesto di continuo e repentino cambiamento come quello in cui viviamo oggi, il “cosa” e il “come” trovano realizzazione solo con l’aiuto di altri: il leader è quindi il motore di un’iniziativa che nascerà solo se condivisa e solo grazie ad altre persone che formeranno una squadra e si metteranno all’opera. La squadra è importante…bla…bla…bla – qualcuno potrebbe avere l’urgenza di interrompere qui la lettura di questo articolo sospettando che stia per cominciare una declamazione del lavoro di squadra.
Non voglio dilungarmi sul valore del lavorare in squadra piuttosto che da soli – questo è ormai scontato – ma su “chi” dovrebbe entrare a far parte di questa squadra. Ichak Adizes dà una risposta in merito intuitiva, ma precisa. Un leader, per quanto intelligente, efficiente, ben organizzato, ecc. … non potrà garantire il successo di un’iniziativa nel tempo; il suo stile, le sue capacità e qualità funzioneranno e basteranno solo fino ad un certo punto. Inoltre, se formassimo una squadra di persone con lo stesso stile del leader, il rischio sarebbe di cogliere un solo punto di vista, di non considerare la situazione nel suo insieme, di prendere decisioni senza dubbio veloci, ma inefficaci e inefficienti. Per rendere sostenibile un’iniziativa (un’organizzazione, una famiglia, un paese…) è
necessario un team di persone complementari.
Un team complementare implica che i suoi componenti siano diversi e che beneficino reciprocamente della loro diversità. Non è facile creare un team come questo: potendo scegliere, chiunque preferirebbe unirsi a persone simili, con cui ci si intende bene. Un team complementare richiede continua manutenzione; quando c’è molta diversità, infatti, c’è anche molto conflitto. Il ruolo del leader, quindi, al contrario di chi lo vede come un tecnico esperto che sforna risposte ai suoi collaboratori, è di gestire persone: gestire la complementarietà dei membri del team, gestire il conflitto, garantendo un clima di fiducia tale da permettere un confronto schietto, sincero, trasparente. Come insegna P. Lencioni, il conflitto è una risorsa indispensabile: senza di esso non ci sarebbe modo di condividere idee, aumentare la possibilità di trovare soluzioni innovative in quanto mancherebbe un apporto creativo al processo di problem-solving. Per beneficiare al massimo del conflitto costruttivo, alla base di tutto, della relazione tra i membri del team, della leadership diffusa, deve esserci fiducia. Mi piace allora l’immagine della leadership come la costruzione di un ponte su un fiume che va costruito mano a mano che leader e follower ci camminano sopra. Nel momento in cui il leader non riuscisse a garantire fiducia reciproca, i membri della squadra faranno dietro front lasciando il ponte incompiuto.
Come si costruisce la fiducia? È un processo lento che, come afferma Lencioni, è fondato sulla vulnerabilità. Se non c’è vulnerabilità, quando arriva il momento del confronto, le persone giocano in difesa e rimangono focalizzate su ciò che hanno da dire, ignorando le ragioni di chi sta loro di fronte: l’obiettivo diventa manipolare la conversazione per averla vinta. Ma così facendo, si perde il potenziale del confronto, l’arricchimento reciproco per il bene del sistema. Rendersi vulnerabile significa ammettere i propri errori, limiti, punti di debolezza. Solo creando un contesto in cui le persone possano permettersi (il “lusso”) di essere vulnerabili, può emergere fiducia, ossia quella consapevolezza che siccome le intenzioni dell’altro sono buone, non c’è motivo di stare in difesa. In aggiunta alla fiducia, Adizes individua un secondo ingrediente necessario al conflitto costruttivo, il rispetto, inteso come il riconoscimento del diritto dell’altra persona di essere in disaccordo. Ma avverte: prima si deve lavorare verso la creazione di un clima di fiducia, solo così può realizzarsi anche il rispetto reciproco. (Giustamente, come potrei ascoltare le idee di qualcuno di cui non ho fiducia?)
Da dove cominciare, allora, se si vuole creare un clima di fiducia? A livello di sistema c’è molto da fare a partire dai processi decisionali, la creazione di una visione e valori comuni, una struttura… Ma ancor prima, a livello del singolo leader, si comincia con il rendersi un po’ più vulnerabili, favorendo la conoscenza reciproca in occasione di incontri formali e informali, abituandosi a parlare apertamente degli errori commessi, senza puntare il dito sugli altri e imparando a spostare il focus della discussione dal problema alle soluzioni.