Difficilmente mi verrebbe da scrivere in merito a qualcosa che accade alla TV visto che non ne sono una grande frequentatrice. Ieri sera però, sono stata catturata da un momento del festival canoro di Sanremo che mi ha fatto riflettere su un tema caro a molte delle organizzazioni con cui collaboro.

Quando la maggior parte degli spettatori era probabilmente già tra le braccia di Morfeo, l’attore Gianluca Gori ha portato in scena uno dei suoi personaggi, Drusilla Foer, che negli ultimi anni, anche grazie ai social, è divenuta nota a molti.
Drusilla ha avuto il compito di chiudere la lunga serata sanremese con un monologo “elenganzissimo”, per definirlo con un’espressione drusilliana; curato, in punta di piedi e al tempo stesso di un’intensità che affonda. Un concentrato di pomodoro: carico, ricco, saporito. L’ingrediente che può fare la differenza, anche nelle organizzazioni.

Drusilla Foer è riuscita a catturare in pochi minuti alcuni concetti millenari parlando di unicità, di come se ne diventa consapevoli e dei benefici che apporta nelle dinamiche personali e sociali.

Cosa c’entra l’unicità nel mondo lavorativo? L’unicità è la porta per l’inclusione, tema sempre più caldo nelle nostre organizzazioni e per il quale oggi si cerca di mettere in campo iniziative di ogni sorte.

L’inclusione è il risultato della consapevolezza che ognuno è unico ed è un percorso che costa fatica perché richiede di mettersi in gioco in prima persona.

L’inclusione, infatti, non si fa con gli eventi e le iniziative che spesso finiscono sulle spalle degli amici dell’HR, le sponsorizzazioni alle associazioni, le operazioni di comunicazione e le tante cose che ci si possono inventare. Certo, sono utili altrimenti non sarebbero state inventate e non si sarebbero scritti centinaia di libri in merito, ma trovano vero senso ed efficacia solo se prima si è “incluso sé stessi”, si è riconosciuta e accettata la propria unicità. Come direbbe l’esperta americana Deborah L. Plummer, solo dopo aver gestito e incluso la propria diversità, allora si può comprendere quella dell’altro e fare inclusione.

Per comprendere e accettare la propria unicità serve prima aver riflettuto sui propri valori, desideri, storia, capacità, personalità, ma anche aver sfidato le proprie convinzioni e aver fatto i conti con le cose di noi stessi che ci piacciono meno.
È proprio l’esercizio di passare per questa “porta stretta” a far sì che poi ci si rivolga all’altro in modo diverso, con molta più attenzione e cura. L’ascolto reciproco diventa più facile e il conflitto molto più costruttivo: un confronto non teso a difendere le proprie convinzioni, ma volto a scardinarle, se necessario. Un ascolto pieno, che appunto include, perché l’altro è riconosciuto.

Per chi si occupa di inclusione c’è da passare da quella porta stretta prima ancora che elaborare strategie e strumenti. Questo è il primo vero passo.

Non si tratta di rendere fumoso o “inspirational” il tema dell’inclusione. Anzi, al contrario, questa vuole essere una delle chiavi per rendere più concreta ed efficace ogni iniziativa.

“Sai, da noi sono tutti per lo più tecnici, non sono fatti per sentire queste cose” – mi viene detto spesso quando mi confronto con chi vorrebbe occuparsi di inclusione nelle organizzazioni.

Non tutti sono stati educati ad ascoltare certe cose, ma non è mai troppo tardi per diventarlo. A volte diamo per scontato che le persone non possano capire o che non siano sufficientemente sensibili privandoci così della possibilità che certe iniziative più “soft” attecchiscano. È una convinzione che va verificata (e già si potrebbero avere delle sorprese) e, se proprio viene confermata, c’è da lavorare.

Includere è una necessità per le organizzazioni. Non esiste organizzazione che possa permettersi al giorno d’oggi di non essere inclusiva, pena la sua sostenibilità. E per includere serve mettersi in gioco ed essere disponibili al cambiamento. Il cambiamento sappiamo che non si attiva mai a comando, con un bottone.

Ci vorrebbe una “Drusilla” in tutte le organizzazioni a facilitare questo cambiamento.

Un aiuto, forse, lo potremmo ricevere dalla generazione Z. È la generazione che più delle altre è stata educata fin dagli inizi della scuola a riflettere su di sé, sulla propria unicità, sul proprio senso; conosciuta per non imbarazzarsi in occasione delle conversazioni più “soft”, anzi, e per questo potrebbe rappresentare un valido supporto per dare un “boost” all’inclusione nelle organizzazioni.

Qui di seguito, per chi ancora se lo fosse perso, una parte del monologo di Drusilla Foer nella performance al Festival di Sanremo.

Diversità è una parola che non mi piace perché. Non mi piace perché ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza che proprio, proprio, non mi convince. No, No. Io credo che quando la verbalizzo sento sempre di tradire qualcosa che penso o che sento. Io trovo che le parole sono come le amanti: quando non funzionano più vanno cambiati subito.

Ho cercato un termine che potesse degnamente sostituire una parola che per me è così incompleta. E ne ho trovato uno molto convincente: unicità.
Unicità mi piace, piace a tutti, perché tutti noi siamo capaci di notare l’unicità dell’altro e tutti noi pensiamo di essere unici, no?
Facile.
No, per niente!
Per niente, perché per comprendere la propria unicità e accettarla è necessario capire di cosa è composta la nostra unicità, di che cosa è fatta, di che cosa siamo fatti…noi. Certamente delle cose belle: le ambizioni, i valori, le convinzioni, i talenti. Eh sì, però i talenti vanno allenati e seguiti.
Delle proprie convinzioni bisogna avere la responsabilità; delle proprie forze bisogna avere cura. Insomma, non è facilissimo.
E queste sono le cose che sulla carta son fiche. Immaginate quando si comincia: i dolori che vanno affrontati, le paure che vanno esorcizzate, le fragilità che vanno accudite. Una roba pazzesca! Non è affatto facile entrare in contatto con la propria unicità. Un lavoro pazzesco.
Come si fa a tenere insieme tutte queste cose che ci compongono? Allora, io un modo ce l’avrei. Si prendono  per mano tutte le cose che ci abitano, quelle belle e quelle che pensiamo essere brutte, e si portano in alto; si sollevano insieme a noi, nella purezza dell’aria, in un grande abbraccio innamorato e gridiamo: “Che bellezza! Tutte queste cose sono io! Sono io.”

Sarà una ficata pazzesca. E sarà bellissimo abbracciare la nostra unicità. E a quel punto, io credo, che sarà anche più probabile aprirsi all’unicità dell’altro e uscire da questo stato di conflitto che ci allontana. Io credo di si.

Sono una persona molto fortunata a essere qui ma vi chiederei un altro regalo: date un senso alla mia presenza su questo palco e tentiamo il vero atto rivoluzionario, il più grande atto rivoluzionario che si possa fare al giorno d’oggi che è l’ascolto. L’ascolto di sé stessi, l’ascolto degli altri, l’ascolto delle unicità.

Promettetemi, vi prego, che ci proveremo. Ascoltiamoci, doniamoci agli altri, confrontiamoci gentilmente accogliamo il dubbio anche solo per essere certi che le nostre convinzioni non siano solo delle convenzioni. Vi prego. Facciamo scorrere i pensieri in libertà, senza pregiudizio e senza vergogna. Facciamo scorrere i sentimenti con libertà e liberiamoci dalla prigionia dell’immobilità. Vi prego.  (Drusilla Foer)