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Centennials difficili e piccoli miracoli

Natale

“Miracolo sulla 34 strada”. Ogni anno danno il film in TV sotto le festività natalizie. A volte i miracoli accadono anche nella vita reale e meritano di essere condivisi.

Per qualche mese mi è capitato di fare attività formativa ad alcuni gruppi di studenti di una scuola di periferia che qualcuno chiama  “Il carcere”. A me non spetta nulla che riguardi il programma ministeriale; si tratta di ore di attività extra-curriculari in cui si prova a sviluppare le soft skills dei ragazzi.

La scuola in questione, dicevo, è un istituto di periferia. Quando si dice “periferia” si pensa subito a luoghi brutti. Ed effettivamente “Il carcere” si trova in un luogo brutto. La stessa struttura è brutta. I corridoi ricordano davvero un penitenziario: pavimenti ricoperti di gomma, porte rovinate, pareti spoglie. E in quest’ambiente si muovono delle persone giovani che spesso portano storie pesanti sulle spalle.

È un contesto molto diverso da quello che ho frequentato nei miei anni da liceale. Qui parcheggiano infatti dei Centennials difficili fino a quando, o per maturità raggiunta o per sfinimento, escono per avventurarsi nel mondo del lavoro. Gli insegnanti e i collaboratori scolastici più che fare scuola si occupano di assistenza sociale. Ogni più piccola cosa sembra un enorme ostacolo da superare.

C’è da dire che molti degli studenti sono genuinamente interessati al programma di studio e diventano degli ottimi professionisti, ma tanti altri (molti di più dei primi) non hanno la possibilità di interessarsi alla scuola: hanno altro genere di bisogni.

Dopo solo un’ora con questi studenti, mi rendo conto che il tempo che passeremo insieme sarà davvero faticoso. La mia bella tabella di marcia, che chi mi conosce bene sa essere definita minuziosamente, finisce per essere presto cestinata.

Sono stata chiamata per un’attività che dovrebbe sviluppare le abilità di project management degli studenti. È un percorso già collaudato negli anni, nulla di particolarmente difficile da gestire. In genere gli studenti sono entusiasti o per lo meno sopportano bene quanto gli propongo perché si fa qualcosa di diverso dalla loro solita routine. Anche il meno interessato o il meno brillante negli studi durante queste ore ha l’occasione di emergere sotto una luce diversa.

Invece, in questo istituto, al di là di un piccolo e timido gruppetto che mi segue, il resto va e viene. Parolacce come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Gente che si alza dalla sedia e che va ad importunare il compagno nell’altro lato della stanza.

Qualcuno ha gli occhi fissi sullo schermo dello smartphone ed è isolato dal resto del mondo con le cuffiette e la musica del videogioco a palla.

“Meglio, non fanno confusione” – osserva qualche insegnante che intercetto in un momento di pausa- “Così puoi andare avanti con quei pochi che ti seguono.”

Non ne sono proprio convinta: preferirei facessero confusione invece che dipendere dallo smartphone per farsi passare il tempo trascorso a scuola.

“Datemi il libretto delle istruzioni per gestire questi Centennials!” – mi verrebbe da chiedere.

Mi sento un pesce fuor d’acqua. Non sono abituata a lavorare in contesti di questo tipo.

Provo a giocarmi carte diverse. Qualche risultato lo ottengo, ma (molto, molto) molto distante dalle mie aspettative.

Che cosa ci sto a fare qua?” – mi chiedo.

Mi tornano in mente le parole di un amico formatore. L’unica cosa che posso fare è stare in aula con loro, per quanto la situazione sia a me scomoda. Non arriveremo fino in fondo al programma. Arriveremo dove sarà giusto arrivare per i ragazzi. Avrò fiducia che qualcosa di buono accadrà, anche se sarà lontano dalle aspettative iniziali di chi ci ha voluti in aula a passare tutte queste giornate insieme.

Ad ogni viaggio di rientro sono stanca morta.

Torno a casa con l’unica soddisfazione di essere sopravvissuta alla giornata senza farmi prendere dallo sconforto.

Imparo che ogni giorno va preso come viene: non sai mai se troverai gli studenti di buon umore e collaborativi, o al contrario, arrabbiati con il mondo e minacciosi di far saltare il programma della giornata.

Si avvicina il Natale. Negli ultimi giorni prima delle vacanze mi viene assegnata una classe tra le più tranquille dell’istituto. Riesco a fare molto dell’attività pianificata e gli studenti si fanno coinvolgere facilmente.

A metà del pomeriggio la porta rimane aperta dopo che uno studente ha chiesto di uscire per qualche minuto. Butto l’occhio fuori dall’aula e vedo che diversi dei ragazzi più difficili della classe adiacente sono in giro per i corridoi della scuola. Tra loro c’è chi nei mesi passati mi ha dato del filo da torcere.

Uno dopo l’altro si accorgono della mia presenza. Entrano senza chiedere autorizzazione alcuna e si crea un po’ di confusione. Vorrei intimargli di tornare nella loro aula dove probabilmente c’è un professore ad attenderli. Mi limito a chiedere:

“Ma non avete lezione in questo momento?”

“Si, ma il prof non sta facendo niente di che” – risponde uno di loro.

Non mi metto a discutere, il rischio è di creare ancora più confusione e distrarre gli studenti che in questo momento sono concentrati nell’attività.

Il gruppetto di “infiltrati” si fa largo tra gli amici; trova posto e si mette stranamente tranquillo. Non volano battute “stupide”. Per la prima volta li riconosco come giovani adulti di quinta superiore.

Sarà magari la presenza di qualche ragazza a cui sono interessati che li motiva a farsi vedere “bravi ragazzi”. Ad ogni modo, sembra stiano bene qui. Si fanno coinvolgere, partecipano. Ci tengono a mostrare a me e agli amici il lavoro sulle soft skills che hanno portato a termine, a mia insaputa, nella mattinata. L’hanno fatto durante le ore di un prof che magari si sarà svenato per coinvolgerli nella sua lezione ma, pazienza, apprezzo lo sforzo. Anzi, rimango incredula pensando alle giornate passate assieme in cui avevo messo da parte ogni speranza di ottenere qualcosa di buono. E scopro che, nonostante tutto, hanno fatto un buon lavoro.

Sono sorpresa. Mi complimento con loro.

Non penso siano abituati a ricevere troppi complimenti nella loro giornata. Nelle loro espressioni c’è tutta la soddisfazione di chi è consapevole di aver dato il meglio di sé.

Ma la vera sorpresa arriva al suono della campanella, quella che segna la fine della giornata. La maggior parte degli studenti si affretta a ricomporre lo zaino e a scappare fuori dalla scuola. (In genere, anche chi passa tutto il tempo a dormire sul banco, al suono della campana dimostra una reattività paragonabile solo a quella di Marcell Jacobs ai blocchi di partenza alle olimpiadi.) Un gruppetto però sembra non avere fretta. Fa qualche battuta, ride rumorosamente. Poi, prima di uscire dall’aula, si avvicina alla cattedra:

Grazie prof.”

Mi verrebbe da ricordargli per l’ennesima volta che non sono “prof”, ma rischierei di rovinare questo momento e togliere importanza a quanto è appena uscito da loro.

Alzo la testa dalla borsa che sto sistemando per incrociare il loro sguardo. Sorridono.

“Grazie Elettra…” – riprende qualcuno – “per essere stata con noi” .

Esserci. Questo era il senso.

Esco da “Il carcere” pensando al bello e al buono che nonostante tutto custodisce.

Mi hanno dato il benvenuto con le parolacce, me ne vado con un grazie. Nel mezzo, è accaduto un piccolo miracolo. È Natale.

2 commenti
  1. Mosè
    Mosè dice:

    Grazie,, mia carissima Elettra, volentieri e con gioia ho letto attentamente il tuo messaggio : un vero dono natalizio pieno di entusiasmo, di pazienza, di accoglienza e di fiducia gino all’estremo. STARE IN MEZZO A LORO, ASCOLTARE E ATTENDERE. Complimenti. L’AMORE VINCE SEMPRE. Auguri di bene in meglio. Lo inoltrerò a mia nipote Maddalena che si trova più o meno nelle stesse condizioni in una Scuola Professionale e anche nrl carcere di Padova. Le farà soltanto che bene sicuramente. Un abbraccio affettuoso ate a mamma Miriana, a papà Angelo e agli altri tre angioletti. Ciao.

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