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Ascolto, umiltà e silenzio

Cos’hanno in comune San Benedetto ed Ezio Bosso?

Probabilmente nulla, ma volendo raccontare l’importanza dell’Ascolto nel campo della leadership (e non solo), ho pensato che entrambi potessero venire in aiuto, ognuno a suo modo.

In occasione della scomparsa di Ezio Bosso, ho rivisto alcune sue interviste e discorsi, tra questi il frammento del discorso di Bosso in Parlamento Europeo in cui si parla di orchestra, comunità, musica e ascolto. Nel corso dell’intervento emerge l’importanza dell’ascolto alla base di una comunità in cui tutti si riconoscono diversi e sono in relazione.

La musica ci insegna la cosa più importante: ascoltare e ad ascoltarci.

Mi è sempre piaciuto canticchiare e ho sempre preso parte ai cori parrocchiali delle città in cui negli anni mi sono trasferita. Qualche anno fa, tornata nel mio paese natale in cui sto rimettendo radici, spinta dalla voglia di fare qualcosa di nuovo e sapendo di essere più o meno intonata, oltre a fare ingresso nell’ennesimo coro, ho deciso di prendere lezioni di canto lirico. Non avrei mai pensato che sarebbe stato un percorso così in salita, di quelli che ti costringe a rimettere tutto in discussione, addirittura la tua stessa voce. È un percorso di crescita possibile sono se ti rendi vulnerabile, disponibile a mettere in luce i tuoi limiti e poi a lavorarci sopra. È una questione di sensazioni, che devi trovare, ascoltare e ricercare. Scopri che devi imparare ad ascoltarti da punti di vista e con strumenti diversi in quanto se ti limiti all’orecchio, puoi cadere in inganno. Scomodando San Benedetto, si potrebbe dire che è necessario mettersi in ascolto umile verso sé stessi. La tradizione ebraica e quella cristiana attribuiscono alla parola “ascolto” un valore molto alto; nell’Antico Testamento questa parola compare addirittura più di 1.000 volte. Non è forse allora un caso che la famosa Regola benedettina inizi proprio con l’imperativo “Ascolta”. L’invito di San Benedetto ai membri della sua comunità, ma che oggi potremmo estendere a qualsiasi organizzazione (per chi fosse curioso suggerisco le letture di M. Folador), è ad un ascolto che comincia da sé stessi e che richiede umiltà. Umile è l’ascolto di chi sa attribuirsi il giusto valore, ovvero che permette di rivelare i propri punti di forza e di debolezza e di lavorare per superare i propri limiti.

All’ascolto di sé segue poi l’ascolto dell’altro. L’ascolto non è da intendere solo come percezione di vibrazioni sonore attraverso l’orecchio. L’ascoltare coinvolge il sentire, il vedere, ovvero va in profondità, arriva fino al cuore e implica un’azione: il riconoscimento dell’alterità, ossia della persona che ci sta davanti. Perché è necessaria quest’azione? Se il leader ha la funzione di stimolare un cambiamento e di rispondere ai bisogni della comunità, ma manca di riconoscere l’altro come persona unica nella sua diversità, l’ascolto rimane limitato a quello della propria voce, della propria mappa, come spesso accade in quelle riunioni-monologo in cui chi presiede comunica la propria idea e decisione senza coinvolgere gli altri. Il leader in questo caso manca di coinvolgere i suoi collaboratori nel processo di soluzione del problema e nel processo decisionale, compromettendo il confronto e rischiando di andare nella direzione sbagliata. Il leader che ascolta davvero compie invece quell’atto di riconoscimento dell’altro, con le sue idee e il suo punto di vista che rappresentano un dono per chi ascolta, un’occasione di arricchimento, di crescita per sé stessi e per il sistema.

Un grande musicista non è chi suona più forte, ma chi ascolta più l’altro.

Come ci insegnano molti maestri, in un’orchestra non esistono strumenti suonati solo per sé stessi: gli strumenti sono in relazione tra loro. Per quanto la melodia di ciascuno strumento presa da sola possa significare poco, ognuna contribuisce ad un disegno più grande. Il leader è in relazione con una comunità così come uno strumento in un’orchestra. L’ascolto è alla base della relazione: se non ascolti gli altri, rischi di andare fuori strada, di suonare la tua melodia, che da sola non porta a nulla. Ho sperimentato sulla mia pelle cosa accade quando si canta solo per far sentire la propria voce. Nei cori amatoriali a volte scatta quella che chiamo “la gara dei soprani”: appena con la coda dell’occhio i soprani cominciano a scorgere il sopraggiungere nello spartito di una nota “comoda”, di quelle in cui i soprani si esprimono al meglio, le senti sgomitare per emergere, per far sentire la loro voce. Non c’è cosa peggiore per un coro, in cui le voci dovrebbero invece amalgamarsi. Cantare forte, per quanto la singola voce possa essere bella, disturba l’armonia. Accade anche ai cantanti solisti quando vogliono mostrare i virtuosismi di cui sono capaci. Se la partitura non prevede il molto forte, non è necessario farlo, anzi a volte rovina l’opera o, come dice qualche maestro, diviene addirittura un insulto al compositore. Perché tutto funzioni, basta fare il giusto, in modo umile, mettendosi in relazione con gli altri, ascoltando chi dirige e i colleghi che stanno attorno. “Ma io non mi sento” – lamenta il cantante amatoriale che sente di essere sopraffatto dagli altri del coro e non riesce a capire se stia cantando nel modo giusto. Serve aver fiducia nel proprio strumento, in chi guida, e nel momento in cui si ha timore di essere nella direzione sbagliata, meglio fermarsi, fare silenzio e ascoltare gli altri per cercare di riprendere il filo.

Oggi tutti parlano e nessuno sta a sentire. Bisogna fare silenzio per potere ascoltare. Un silenzio attivo, perché aiuta a percepire non solo il suono, ma anche te stesso, la tua anima.

Il silenzio, il cosiddetto “habitus del monaco”, è quello spazio temporale e fisico che consente di meditare le parole che si ascoltano e formare quelle da utilizzare quando si dialoga. A volte in un’epoca in cui tutti hanno il diritto di parlare, in cui non c’è tempo da perdere e si deve ottenere il massimo con il minimo dispendio di energia, è difficile rimanere in silenzio. Le riunioni diventano spesso un turbinio di parole nel vuoto, mal pensate, a volte inutili, a volte originanti incomprensioni e conflitti. In tanti oggi tengono conferenze, salgono sul palco per un monologo, pubblicano dieci post al giorno nei loro canali social, organizzano gruppi di incontri pensando di far circolare idee quando in realtà veicolano solo la loro di voce. In un mondo in cui si dà risalto al parlare, c’è il rischio che in pochi rimangano ad ascoltare.

L’ascolto è un’azione che richiede il silenzio, che non è un atto passivo, ma attivo, come sottolineato da Bosso. Un leader che non sa rimanere in silenzio rischia di non ascoltare neppure sé stesso e di essere totalmente inefficace nella sua funzione. Pensando ai più grandi leader che ho conosciuto finora, mi vengono in mente persone con età, nazionalità e interessi diversi, ma accomunate proprio dalla capacità di fare silenzio e rimanere in profondo ascolto con chi hanno di fronte. Mi è rimasta impressa l’immagine di un grande imprenditore israeliano, Morris Kahn, quello che a febbraio 2019 ha permesso il lancio della prima navicella spaziale privata, seduto a gambe incrociate in mezzo ad un gruppo di giovani totalmente catturato dall’ascolto delle loro idee, in silenzio, come se non esistesse altro in quel momento al di fuori di quei ragazzini. Fare silenzio non richiede solo di eliminare i rumori dell’ambiente che ci circonda, ma di zittire i pensieri e i giudizi che disturberebbero un ascolto profondo dell’altro ed entrare in empatia. Quante volte capita di ascoltare una persona mentre già formuliamo nella nostra mente le parole da far seguire a quanto detto da chi ci sta di fronte?

Di recente mi è capitato di stare in una riunione in cui c’erano parecchie pause di silenzio tra un intervento e l’altro. “C’era così tanto silenzio che ero in imbarazzo” – mi sono sentita dire in seguito da un partecipante. È vero, il silenzio può mettere qualcuno in difficoltà, ma è questione di allenamento. Se ci si abitua, il silenzio può essere una risorsa preziosa. Chi è davvero leader ne è consapevole e pratica il silenzio come risorsa per conoscere sé stesso e la realtà che lo circonda.

Ascolto, umiltà e silenzio, tre dei principali valori della tradizione monastica, sono ingredienti indispensabili alla leadership, specialmente in un’epoca come la nostra in cui si parla di leadership diffusa. Se consideriamo la longevità delle comunità monastiche, potremmo dire che tutte le organizzazioni (tutti i sistemi) dovrebbero alimentarli al proprio interno per rendersi sostenibili.

Da dove cominciare? Ad esempio, se dobbiamo gestire degli incontri tra collaboratori, possiamo valutare se il luogo in cui ci incontriamo sia consono all’argomento da trattare (es. non in mezzo al corridoio o in un open space rumoroso). Possiamo invitare i collaboratori a lasciare i dispositivi elettronici fuori dalla stanza. Possiamo introdurre delle regole che facilitino l’ascolto: I. Adizes suggerisce di far intervenire le persone sì per alzata di mano, dando però la parola non a chi ha alzato la mano per primo, ma alla prima persona con la mano alzata sulla destra di colui che ha appena terminato di parlare. Questo fa in modo che chi è abituato a monopolizzare la conversazione ed è impaziente di parlare, diventi un pochino più paziente e in ascolto di quanto gli altri hanno da dire.

È importante comunque sottolineare che l’ascolto non avviene dall’oggi al domani: è un percorso innanzitutto personale che richiede esercizio. In tutto ciò al leader spetta il compito di dare l’esempio.