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Di recente mi sono imbattuta in una conversazione relativa alla difficoltà di trovare giovani che “abbiano voglia di lavorare”.

È questa una delle tante espressioni che danno il LA ad una conversazione che rischia di essere semplicemente uno sfogo senza fine e utilità. Potrei lasciarla andare così, però stimola la mia curiosità: cos’avrà mai fatto questa volta il giovane per meritarsi l’attributo di chi non ha voglia di lavorare?

Lo chiedo al mio interlocutore.

Inizia così una conversazione interessante sul fatto che, terminata l’emergenza Covid, al personale è stato richiesto di fare rientro in ufficio e di ridurre il numero di giornate lavorate da casa, di “smartworking”, cosi come spesso è impropriamente stato definito.

Mentre tra i lavoratori c’è chi apprezza il fatto di poter tornare pienamente in presenza, altri non sono contenti e chiedono di poter continuare a godere di una modalità di organizzazione del lavoro che gli consenta maggior flessibilità.

Di fronte però al “no” del datore di lavoro, comincia il malumore. Finisce che lo smartworking diventi oggetto di un conflitto fondato su pregiudizi e sentenze che non giovano a nessuna delle parti.

Le cose poi si fanno più calde quando a chiedere lo smartworking è il giovane candidato che si sta offrendo per la posizione aperta. “Quanti giorni a settimana in smartworking mi concedereste?”

Alcuni recruiter mi dicono che questa domanda ultimamente abbia conquistato così tanta popolarità da guadagnarsi la pole position nella lista delle domandi più frequenti ad un colloquio anticipando addirittura quella sullo stipendio.

Il fatto è che questa domanda irrita non poco i recruiter, specialmente quelli che lavorano per aziende che non sono strutturate in modo da poter concedere lo smartworking, o semplicemente, che non credono in questa modalità di organizzazione.

Ma siamo davvero certi che il problema sia proprio lo smartworking?

Se lo considerassimo tale, non ci sarebbe soluzione: una delle due parti dovrebbe prevalere sull’altra. Oppure, si dovrebbe cercare un compromesso che non soddisferà nessuno dei due e che segnerà un precedente nella relazione che non si promette certamente buona.

Prima di entrare nel conflitto o di negoziare il compromesso, potrebbe invece valere la pena frenare il proprio impulso a trarre conclusioni affrettate per assicurarsi che entrambe le parti abbiano capito il problema oggetto del confronto. Spesso capita infatti di litigare senza essersi reciprocamente chiariti sul problema da affrontare. Conseguentemente ci si trova in conflitto sulle soluzioni, perché ognuno ha in mente un problema diverso.

Lo smartworking è una soluzione, uno strumento, un modo di organizzare il lavoro, ecc. … È una risposta ad un problema, non è il problema!

Entrare in una discussione perché uno vuole lo smartworking e l’altro non è disposto a concederglielo significa potenzialmente prendere un grosso granchio o perdere un’opportunità (nel caso in cui di fronte si abbia un candidato).

È dunque meglio chiedersi: quale bisogno, se non è stato esplicitato, sta dietro la richiesta dello smartworking? Quale bisogno vuole invece tutelare il datore di lavoro?

Ecco che di fronte alla domanda “Perché?” le cose potrebbero farsi più chiare.

Perché mi verrebbe più facile gestire la spesa.

Perché vorrei utilizzare il tempo guadagnato non stando nel traffico per dedicarmi allo sport o alle attività sociali.

Perché vorrei essere vicina all’asilo di mio figlio in caso mi chiamassero e dovessi andarlo a prendere.

Perché i miei genitori sono anziani e ho bisogno di maggiore flessibilità per poterli assistere.

Ecc. …

Nel momento in cui il problema diventa esplicito (sempre che lo si riesca a fare), lo smartworking diventa una delle soluzioni in gioco, ma non l’unica. Il focus della conversazione diventa allora la ricerca di soluzioni che possano essere accettate da entrambe le parti e che possano rispondere al problema di partenza. Lo smartworking potrebbe certamente essere una di queste soluzioni, ma potrebbero essercene altre altrettanto efficaci ed efficienti se solo si spendesse un po’ di tempo a cercarle.

Ci sono aziende che magari non hanno la possibilità di attivare oggi lo smartworking, ma che hanno adottato altre modalità per rispondere ai bisogni del collaboratore. Svolto un sondaggio tra i collaboratori c’è chi ha introdotto il maggiordomo aziendale che si occupa di fare la spesa, di portare i panni al lavasecco e di riportarli stirati, di ritirare farmaci in farmacia, di portare la macchina all’autolavaggio… In altri casi esiste il baby-sitter, il dog-sitter oppure il servizio di trasloco, quello per le manutenzioni domestiche o l’organizzazione di compleanni ed eventi.

Quello dello smartworking è solo un esempio. Potrebbero esserci molte altre situazioni di conflitto e di negoziazione rispetto ad altre tematiche. Alla base c’è sempre la stessa domanda: perché? Quali sono i tuoi interessi? Quali sono i tuoi bisogni?

C’è da aspettarsi che non sempre le persone abbiano una risposta. In tal caso, c’è da aiutare le persone ad esplicitare il proprio bisogno, a fare chiarezza, così che poi sia più semplice individuare insieme una soluzione.

Potrebbe capitare ad esempio di scoprire che il bisogno sia “semplicemente” di essere riconosciuti. Piuttosto allora di entrare in conflitto su benefici che l’azienda non può o non è pronta a concedere, vale la pena individuare insieme soluzioni alternative che permettano al collaboratore di sentirsi riconosciuto e soddisfatto nel suo bisogno così come all’azienda di soddisfare la sua necessità, ad esempio, di sostenibilità.