Paperon de’ Paperoni e l’apologia del guadagno
Secondo il rapporto Oxfam, negli ultimi 21 mesi di pandemia i Paperon de’ Paperone della terra hanno più che raddoppiato il loro patrimonio.
Questa notizia ha fatto il giro del pianeta molto velocemente, rimbalzando di social in social.
Tra gli uomini più ricchi menzionati da Oxfam, spicca quello di Jeff Bezos, fondatore della società di e-commerce più grande al mondo, la nota Amazon. Non sono rimasta particolarmente stupita da questa informazione, è da un po’, del resto, che avevo notato girare i nuovi furgoncini brandizzati “Amazon” anche nel mio paese.
Siccome per la maggior delle persone è già difficile immaginarsi la vita con qualche milione di euro in tasca, Oxfam ha provato a farci comprendere la dimensione del surplus patrimoniale degli ultimi due anni dell’impero di Bezos con un’analogia: gli affari vanno così bene che, con quanto generato, Jeff da solo potrebbe vaccinare l’intera popolazione mondiale.
La notizia però che fa accendere gli animi, soprattutto nel mondo dei social, è che Bezos e i suoi amici potenti negli ultimi mesi abbiano più che raddoppiato il loro patrimonio mentre, nello stesso periodo, 163 milioni di altre persone sono cadute in povertà. I Paperon de’ Paperoni, anche italiani, continuano ad accumulare ricchezza, mentre altri esseri umani continuano ad impoverirsi.
“Che ingiusta la vita” , “Che ingiusto il sistema” – il genere di commenti che ho trovato in rete. Ma con mia sorpresa, oltre ai leoni da tastiera che si sono lanciati in discussioni a volte violente, ho trovato altro tipo di riflessione: un invito a chiedersi se davvero sia necessario e utile “condannare” questi Paperoni e ciò che sono stati capaci di mettere in piedi. Del resto, tra i nomi degli uomini più ricchi del Belpaese ci sono quelli di persone molto stimate, anche umanamente.
Il problema quindi, se lo vogliamo definire tale, non è tanto il patrimonio di Jeff e dei suoi amici potenti. La vera questione è come il profitto delle loro aziende venga distribuito e che impatto si sia generato (positivo o negativo) durante e dopo il processo che ha permesso al bene/servizio di raggiungere e soddisfare il cliente. L’azienda è unicamente estrattiva cioè genera valore solo per sé stessa e per i suoi azionisti o è rigenerativa, ovvero crea valore anche per altri soggetti? L’azienda nell’operare distrugge risorse o è in grado di produrne?
Questo dovrebbe essere il parametro di valutazione o per lo meno uno dei parametri.
Questi concetti non sono affatto nuovi, ma risalgono addirittura al periodo medioevale. Ricordo che a lezione all’università qualche professore mi ha parlato di Giovanni Olivi e Bernardino da Siena, due frati. Il primo introdusse il concetto di bene comune e riabilitò la figura del mercante che genera ricchezza e contribuisce allo sviluppo della comunità. Il secondo, , vissuto circa un secolo più tardi, precisò che il guadagno e la ricchezza sono da condannare quando sono prodotti da un’attività che non ha utilità al fine del bene comune o che danneggia la comunità.
Già secoli fa si intendeva il guadagno come vincolo, non come fine, e per quanto il medioevo sia temporalmente distante dalla nostra epoca, questo è un concetto che oggi si fa ancora fatica a mandar giù. La mentalità della massimizzazione del profitto, infatti, serpeggia ancora tra molti imprenditori e manager (soprattutto delle grandi aziende, retribuiti sui risultati di breve), ed è in parte retaggio di un modo di fare business che limita la comunità ai soli azionisti, dove quindi il profitto e la soddisfazione degli azionisti diventano il parametro di giudizio dell’operato di chi guida l’azienda.
Già da qualche decennio, per fortuna, anche nel mondo accademico sta tornado il tema degli “stakeholder”, i portatori di interesse, che include ma non limita agli azionisti il concetto di comunità. Così le aziende stanno evolvendo e, in qualche realtà, si comincia a vedere che la valutazione della performance dei manager viene legata all’impatto ambientale e sociale che le loro decisioni hanno prodotto. In queste realtà si sta divenendo sempre più consapevoli che l’azienda vive a lungo se al contempo vive la comunità, il sistema, in cui è inserita.
In un sistema fatto di sottosistemi interdipendenti, quale è il mondo in cui viviamo, implementare decisioni che generano guadagno nel breve, ma che vanno a discapito della comunità (interna e/o esterna), equivale a “tirarsi la zappa sui piedi” nel medio-lungo periodo. Agire a danno di qualcuno o di qualcosa, prima o poi, porta a pagare un conto salato: cause legali, sanzioni, danno reputazionale, perdita di quote di mercato, cessazione dell’attività ma sopratutto si determina una faglia nella comunità, una ferita, che richiederà tempo per essere rimarginata. Madoff, Enron, Parmalat per citare solo alcuni dei casi che ancora fanno scuola ai “manager in divenire” seduti tra i banchi delle università italiane. Per sapere di esempi più vicini a noi, basta aprire (purtroppo quasi) quotidianamente la pagina della cronaca dei giornali locali.
Come qualcuno fa notare in questi giorni nei social, non c’è da indignarsi se c’è qualcuno che produce più ricchezza di altri pureché questa ricchezza “faccia bene” alla comunità, crei posti di lavoro, non bruci più risorse naturali di quelle che è in grado di rialimentare, venga prodotta nel rispetto dei diritti umani, favorisca la formazione, l’educazione e la salute di chi abita la comunità.
Si richiede che Paperone sia consapevole che nulla e nessuno é fine a sé stesso.
Forse questo è lo scoglio, il limite di molti imprenditori, manager, uomini e donne alla guida di organizzazioni: la scarsa consapevolezza che a ognuno è data la responsabilità di giocare la propria parte per il sistema. Chi vive solo per sé stesso, si trasforma in qualcosa di nocivo al sistema che a lungo termine determina la sua stessa brutta fine.
Ognuno invece dovrebbe giocare la sua parte come un organo in un corpo: il cuore non vive per sé stesso, così come il naso o i piedi, gli occhi… Ogni organo è diverso, ha un ruolo, bisogni e capacità diversi. Eppure tutti gli organi sono interconnessi e interdipendenti. Il malfunzionamento di uno non è indifferente agli altri, al corpo nel suo intero.
Anche questa non è una riflessione da management moderno, per quanto qualche autore cerchi di farla passare come sua invenzione. Le antiche culture lo tramandano da secoli.
Ne avrà avuto conferma chi è capitato in chiesa domenica scorsa. Non avevo mai fatto attenzione ad una lettera di San Paolo che racchiude in sé una lezione per imprenditori e manager, l’essenza di quella cultura imprenditoriale e manageriale che, seppur con fatica, si sta ri-diffondendo in tutto il mondo e che ci auguriamo conoscano anche gli uomini più potenti del pianeta.
Riporto qui sotto un piccolo pezzettino della lettera così da risparmiare la ricerca a chi fosse incuriosito.
Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». […] Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. […] Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
Non c’è quindi da condannare i ricchi del pianeta a prescindere. L’importante è essere consapevoli di essere parte di un sistema più grande. Non significa fare beneficienza all’organizzazione non profit famosa (modalità diffusa per lavarsi le colpe di dosso), ma fare in modo che la propria ricchezza non si generi facendo il male di altri, ma preferibilmente il bene. Prima o poi, i nodi verranno al pettine. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”.