Emorragia di collaboratori: la cura è la cura
L’ennesima conversazione con alcuni manager sul tema “giovani in fuga dal posto di lavoro”.
Un seminario sull’integrazione delle generazioni in azienda.
Una conversazione in un corso di counseling.
Un conflitto con un gruppo di giovani con cui collaboro.
Un nuovo articolo sulle “Grandi dimissioni”
La lettura di “Oscar e la Dama rosa” di Eric-Emmanuel Schmitt.
Cose che capitano nell’arco di pochi giorni ma che, forse, volendo cercarla anche senza troppa fatica, hanno una parola in comune: “cura“.
Non riusciamo a trovare personale.
Non è un fenomeno nuovo quello della fuga dei giovani, della fatica a reclutare e trattenere i collaboratori. È da tanto tempo che si parla della fuga dei cervelli, di giovani talenti che scappano all’estero. Oggi però, la fuga interessa anche i meno giovani e non avviene necessariamente all’estero.
“Nessuno vuol far fatica e sacrifici” – la battuta che più ascolto.
“I giovani non vogliono fare la gavetta. Dopo qualche mese di lavoro vogliono già la promozione” – la frase che è nella mia “top 3” da ben prima del Covid .
“I giovani non devono essere troppo choosy”. Sono passati ormai dieci anni da questa uscita dell’allora Ministro del Lavoro Fornero, eppure sembra ieri.
In ognuna di queste affermazioni probabilmente c’è del vero, ma è solo una parte della storia.
L’articolo della giovane Federica, coltivatrice di mirtilli, non ha a che fare con pigrizia o mancanza di impegno e sacrificio. E di storie come questa, di chi ha deciso di fare un cambio di vita, se ne leggevano già prima del Covid, solo che passavano un po’ più inosservate.
Nella mia piccola esperienza di formazione a giovani e meno giovani che si sono dimessi volontariamente dal loro posto di lavoro con contratto indeterminato mi è capitato più volte di chiedere: “Perché ti sei dimesso?”
Posso affermare con serenità che, tra le persone che ho incontrato, il 90% delle dimissioni è legato all’ambiente di lavoro poco curato, alla scarsa relazione con i propri responsabili e colleghi, allo stress. Percezione di non essere ascoltati, di non essere riconosciuti, di non essere valorizzati adeguatamente. Se poi entriamo nello specifico di chi lavora in produzione, si aggiunge un insieme di altre considerazioni quali la scarsa tutela della salute fisica e mentale (es. mancanza di formazione adeguata, carenza di dispositivi di protezione, orari di lavoro logoranti). Di qui la speranza che, da qualche parte, esista un’azienda verso cui scappare che sappia fare meglio di quella da cui si proviene.
Cosa (o come) fare allora per fermare l’emorragia di collaboratori?
Se una soluzione la si vuole davvero trovare, questa sta innanzitutto in un cambio culturale.
Chi cerca soluzioni rapide ed efficaci al problema del personale che non si trova o espedienti che facciano fare immediato dietro front ai collaboratori in fuga, cerca una bacchetta magica. Ogni azienda è unica a suo modo e deve trovare la propria di soluzione. Per far questo serve fermarsi a riflettere, comprendere il problema a fondo e da qui identificare una nuova direzione, strumenti e iniziative.
“Ma non possiamo fermarci. Abbiamo i clienti che ci bussano alla porta.”
È vero, ci sono tante pressioni esterne specialmente in questo momento. Prendersi del tempo per guardare oltre le priorità del quotidiano può far paura. Eppure, chi non si ferma mai a riflettere rischia di alzarsi una mattina nel futuro e trovarsi a non avere più nulla da gestire.
È giusto notare che, oltre alle aziende che non trovano collaboratori, ci sono realtà che non soffrono di questo problema o per lo meno che lo accusano lievemente. Sono aziende che hanno cominciato ad “alzare la testa” molto tempo fa e che oggi stanno bene grazie ad iniziative messe in campo prima della crisi avendo fatto proprio il concetto di sostenibilità sociale.
Per molti la cultura imprenditoriale dominante è ancora quella del “fare” al fine della sostenibilità economica e di una visione impresa-centrica del sistema. Questo non vale più da anni. Di questa cultura spesso fa parte il modello “Dovrebbero ringraziarmi perché gli do lavoro” e “Io alla loro età andavo a lavorare gratis”. Se questa è la convinzione di partenza, poche sono le speranze di reclutare nuove leve e trattenerle. Sono di esempio i casi di alcuni personaggi famosi che negli ultimi due anni finiscono sui giornali lamentando la fatica di trovare personale.
Le aziende che oggi “stanno bene” sono quelle che hanno saputo integrare sostenibilità economica, ambientale e umana. L’impresa è parte del sistema, non il suo centro. E i suoi confini non sono così netti: l’impresa permea il sistema e il sistema permea l’impresa.
La letteratura individua diverse iniziative da mettere in campo per meglio trattenere i collaboratori, soprattutto i più giovani. Alcune di queste sono molto moderne e innovative (penso ad esempio allo strumento della gamification di cui spesso i manager mi chiedono informazione in aula). Le mie stesse giornate di formazione sono ricche di tutti questi strumenti della letteratura e di suggerimenti in merito al cosa “fare”.
Ma anche con le migliori intenzioni, tutto questo “fare” rischia di essere privo di valore se prima non si è creata la cultura e l’ambiente giusto perché poi le iniziative trovino terreno fertile ed attecchiscano.
E una cultura imprenditoriale che non faccia fuggire i collaboratori e che ne attragga di nuovi è quella che per prima cosa ha cura. Un fare che manchi di cura è un gestire miope che non porta lontano.
Che cos’è la cura e come la si mette in pratica?
Come spesso mi capita, lo spunto, forse poco scientifico ed accademico, ma più immediato l’ho trovato in un testo che non ha a che fare con la lettura manageriale: “Oscar e la Dama rosa”. Una vicenda triste e gioiosa allo stesso tempo in cui una volontaria presta assistenza ad un bambino ricoverato in ospedale nei suoi ultimi dodici giorni di vita.
In “Oscar e la Dama rosa” protagonista non è la cura del medico che invano cerca di guarire il giovane protagonista della storia; è tutt’altro tipo di cura.
Accogliere. Ascoltare. Essere presenti: questa è la cura che Nonna Rose riserva ad Oscar che finisce per essere “cura” non solo per il bambino, ma per suoi genitori, gli amici, i medici e per Nonna Rose stessa (il sistema). È la cura che datore di lavoro e collaboratore (junior o senior che sia) si aspettano l’uno dall’altro, ma su cui spesso si fa fatica.
Non svelo oltre per non togliere curiosità a chi questo libro non l’ha ancora letto.
Tante volte sono le letture lontane dal mondo imprenditoriale a suggerire strumenti per migliorare il proprio business.
“Oscar e la Dama rosa” è un testo di circa cento pagine. Un investimento di meno di un’ora, alla portata di tutti, anche di chi in questo periodo è preso con le bombe (più e meno letteralmente).